Lo scorso 18 maggio, il Governo ha avviato la c.d. Fase 2. Prosegue, cioè, nel “programma” volto ad affrontare l’emergenza causata dall’epidemia da virus COVID-19, eliminando in gran parte il blocco imposto ai cittadini, alle attività e ai vari settori dell’economia, per ridurre la diffusione della malattia e prevenire le conseguenze potenzialmente disastrose del sovraffollamento sanitario.
Viene consentita ai più la ripresa sociale ed economica, con riapertura alla circolazione intra-regionale delle persone e alla visita di amici e parenti, si riaprono bar, ristoranti, parrucchieri e negozi in genere, si permette nuovamente lo sport, anche in forma collettiva, ecc.
La ripresa è guidata da corposi Protocolli di comportamento, emessi – a integrazione delle generali cautele raccomandate (distanziamento sociale, igiene delle mani, uso di mascherina) – con l’ausilio dell’ormai famoso Comitato tecnico scientifico, nominato per aiutare il Governo nella gestione del fenomeno sanitario.
Tuttavia, a fronte di tale generalizzata riapertura, c’è un settore – e che settore! – ancora in pieno lockdown: la Giustizia.
Dopo oltre 2 mesi di totale chiusura, con radicale sospensione di udienze e termini, la Giustizia è ancora ferma: la maggioranza delle cause vengono rinviate a dopo l’estate (se non addirittura all’anno 2021), pignoramenti e sfratti rinviati, gli uffici notifiche sono in funzione per i soli atti urgenti, le cancellerie operano da remoto e a scartamento ridotto. E, notizia di questi giorni, i giudici che si rifiuterebbero di riprendere il loro posto in aula e impugnano alla Corte Costituzionale la norma che ciò prevede.
In un Paese sovente distratto e grandemente disilluso, pochi commentatori hanno segnalato sui quotidiani nazionali l’assurdo di un settore cruciale come la Giustizia, cui viene consentito di restare indietro.
Il settore è fermo, in un momento in cui sarebbe utile un rapido ritorno alla normalità, perché pressante appare il bisogno di tutela e di supporto alla cittadinanza.
Il Governo è assente, ha dimenticato direttive e protocolli. I vertici giudiziari sono avviluppati in lotte di potere e polemiche politiche.
La mancanza di direttive governative ha lasciato ai vertici degli Uffici giudiziari il compito di gestire l’emergenza. I Tribunali, privati di Protocolli e linee guida comuni, sono andati ciascuno per la propria strada, generando criteri difformi e confusione negli addetti ai lavori.
La responsabilità di disciplinare l’immediata ripresa del funzionamento è stata in prevalenza declinata dai giudici, attraverso la semplice soluzione del rinvio a giorni migliori.
Si è ridotto al minimo indispensabile il numero di udienze, sono diluiti nel tempo scadenze e adempimenti, in sostanza si rinvia la ripresa dell’attività giudiziaria. Addirittura, c’è chi trova “incostituzionale” il ritorno sul posto di lavoro.
Qualcosa deve sfuggirci. Continuiamo a non capire perché sia possibile riaprire in sicurezza negozi e fabbriche, e non invece i Tribunali.
Nei prossimi mesi assisteremo a pochissime udienze, vedremo rallentare il corso dei procedimenti e, inevitabilmente, la giustizia aumenterà il suo arretrato.
I cittadini vedranno procrastinate nel tempo le loro cause e istanze di tutela. Saranno ancor più frustrati dal viatico giudiziario e rimediteranno la effettiva convenienza di un accesso alla giustizia.
Tutti i soggetti, anche quelli economici ed esteri, considereranno ancora una volta l’incapacità del nostro Paese nell’organizzare con efficienza un servizio che è fondamentale per la vita di una società civile.
Il lavoro dei tantissimi avvocati italiani sarà vieppiù pregiudicato dal fermo prolungato, come se non bastassero la crisi e l’assenza di misure di soccorso per la maggioranza dei professionisti.
Sono effetti gravi, in contrasto con diritti e principi affermati in Costituzione, ma che possono avere implicazioni e conseguenze più pesanti e durature.
Abbandonare il settore a sé stesso, omettere di approntare le giuste condizioni per una riapertura immediata e in sicurezza degli Uffici giudiziari (sfruttando spazi e orari aggiuntivi, usando ove possibile il telematico, e così via), vuol dire continuare a non comprendere l’importanza della Giustizia per la vita di una nazione, quale baluardo di diritti e libertà.
Negare la ripresa, negare tempi ragionevoli, vuol dire denegare Giustizia, vuol dire dare spazio ad arbitrio e sopraffazione.
E ciò, in un Paese civile è gravissimo. In questo momento, lo è ancor di più.
Gabriele Gianese
Ordine Avvocati di Roma
Eutekne del 27 maggio 2020