Il patto di famiglia e il passaggio generazionale dell’impresa
A CURA DEL GRUPPO DI LAVORO TUTELA DEL PATRIMONIO
AREA FISCALITÀ E AREA DIRITTO SOCIETARIO
FONDAZIONE DI RICERCA DEI DOTTORI COMMERCIALISTI E DEGLI ESPERTI CONTABILI
SOMMARIO
SEZIONE I – INTRODUZIONE (di Sergio Spinelli)
1.1. La necessità di pianificare tempestivamente il passaggio generazionale dell’impresa
1.2. L’analisi delle specifiche esigenze familiari
1.3. La necessaria tutela dei rapporti consolidati con banche e fornitori
1.4. La valutazione dell’opportunità di un periodo di affiancamento nella governance
aziendale
1.5. Il ruolo del consulente 1
SEZIONE II – PROFILI CIVILISTICI (di Cristina Bauco)
2.1. L’istituto del patto di famiglia
2.2. La forma del patto di famiglia
2.3. La compatibilità con le disposizioni dettate in materia di impresa familiare e il rispetto
delle differenti tipologie societarie
2.4. I requisiti oggettivi del patto di famiglia
2.5. Le parti del contratto
2.5.1 L’imprenditore
2.5.2 I discendenti assegnatari
2.5.3 I legittimari
2.5.4 La liquidazione dei legittimari partecipanti al patto e non assegnatari ex articolo
768-quater c.c.
2.5.5 L’articolo 768-sexies e i legittimari non partecipanti al patto
2.6. L’impugnazione del patto di famiglia
2.7. Lo scioglimento del contratto
2.8. La conciliazione e la risoluzione delle controversie
SEZIONE III – PROFILI VALUTATIVI (di Matteo Pozzoli)
3.1. La valutazione dell’azienda e delle quote trasferite
SEZIONE IV – PROFILI FISCALI
4.1. Premessa (di Viviana Capozzi)
4.2. Imposizione diretta e patto di famiglia (di Valeria Guido)
4.2.1. Il trattamento fiscale in capo al beneficiario del patto di famiglia
4.2.2. La posizione dei legittimari non destinatari; l’irrilevanza fiscale della liquidazione
ricevuta
4.3. Imposizione indiretta e patto di famiglia (di Viviana Capozzi)
4.3.1. Segue: i modelli impositivi operanti in caso di inapplicabilità del regime di
esenzione
4.3.2. Segue: la liquidazione dei legittimari non assegnatari
4.3.3. Segue: gli effetti fiscali dello scioglimento del patto di famiglia
4.3.4. Segue: gli effetti fiscali dell’eventuale liquidazione dei legittimari non assegnatari
da parte del disponente
4.3.5. Segue: la liquidazione dei legittimari “sopravvenuti”
SEZIONE V – PROFILI COMPARATIVI (di Luigi Gualerzi)
5.1. Patto di famiglia, donazione, successione e trust confronto fra gli istituti
5.2. La successione: profili civilistici
5.2.1. Segue: la successione legittima
5.2.2. Segue: la successione testamentaria
5.3. La successione: profili fiscali
5.4. La donazione: profili civilistici
5.5. La donazione: profili fiscali
5.6. Il trust successorio: profili civilistici
5.7. Il trust successorio: profili fiscali
5.8. La reintegra dei diritti dei legittimari: profili civilistici
5.8.1. La collazione
5.8.2. L’azione di riduzione
5.9. La reintegra dei diritti dei legittimari: profili fiscali
5.10. La volontà dell’imprenditore di gestire il proprio passaggio generazionale
5.10.1. Segue: la successione legittima
5.10.2. Segue: la successione testamentaria
5.10.3. Segue: la donazione
5.10.4. Segue: il trust
5.11. Conclusioni
5.11.1. Il ruolo dell’imprenditore
5.11.2. Il ruolo del Commercialista
5.11.3. Il ruolo del legislatore
SEZIONE VI – DE JURE CONDENDO (di Luigi Gualerzi)
6.1. Aspetti che richiedono urgenti interventi normativi
6.1.1. Necessità della partecipazione di tutti i legittimari all’atto
6.1.2. Possibilità di liquidare le quote di legittima spettanti ai legittimari non assegnatari direttamente da parte del disponente
6.1.3. Individuazione delle partecipazioni che possono essere oggetto del patto di famiglia
6.1.4. Le principali incertezze operative in tema di imposte dirette
6.1.5. Possibile modifica normativa di carattere innovativo volta a potenziare l’istituto
6.2. Conclusioni
SEZIONE I – INTRODUZIONE (di Sergio Spinelli)
- La necessità di pianificare tempestivamente il passaggio generazionale dell’impresa
È giunto il momento. Il genitore non ce la fa più o, peggio ancora, è successo qualcosa di grave e
irreparabile e i figli si trovano, senza possibilità di scegliere, a gestire l’azienda.
Come per le altre fasi della vita umana, e ancor più dell’impresa, è opportuno non giungere impreparati e, per quanto possibile, anticipare gli eventi e impostare il passaggio generazionale per tempo. In questa fase, un ruolo fondamentale è riservato al Commercialista, in quanto consulente e persona di fiducia del nucleo familiare. A lui spetta il compito di affiancare e supportare l’imprenditore nell’individuazione degli strumenti che consentano di raggiungere una più efficace e meno onerosa tutela del patrimonio familiare, in un’ottica sia conservativa che trasmissiva.
Si tratta di un ruolo complesso che comporta il diretto contatto con l’imprenditore e la sua famiglia, un ruolo che privilegia, oltre alle competenze aziendalistiche e tributarie del Commercialista, la sua vocazione alla mediazione: sarà di estrema importanza, infatti, gestire il passaggio generazionale in modo da conservare inalterata la fiducia dei finanziatori e dei fornitori dell’impresa, tentando al contempo di evitare che possibili controversie tra i futuri eredi del dante causa conducano ad estenuanti lotte giudiziarie.
In tale prospettiva, peraltro, si pongono anche le raccomandazioni contenute nel codice di autodisciplina per le società a controllo familiare non quotate (Associazione Italiana delle Aziende Familiari – Università Commerciale Luigi Bocconi, Codice di autodisciplina per le società a controllo familiare non quotate, maggio 2017, l’adesione al quale è volontaria, e contiene raccomandazioni da recepire come linee guida e al fine di poter realizzare un dialogo proficuo con gli stakeholders dell’impresa, siano essi banche e finanziatori, fornitori, clienti o collaboratori). Più partitamente, l’art. 9 del codice raccomanda alle società di adottare politiche di pianificazione e piani successori, in modo da garantire continuità di governo e di gestione della società definendo regole precise per affrontare efficacemente le transizioni generazionali, le trasformazioni proprietarie, ovvero, attualizzando alla recente pandemia da Covid – 19, eventi straordinari che possano negativamente incidere sull’azienda, o sul Gruppo, ovvero sulla famiglia che ne detiene il controllo.
Il codice raccomanda che l’avvio del percorso avvenga per tempo, ossia quando l’imprenditore o il leader aziendale siano in età tale da garantire un efficace presidio del processo, e comunque sotto la stretta supervisione degli organi di governo; si raccomanda, inoltre che i piani successori dovrebbero essere predisposti tenendo conto della necessità di stabilire opportune regole di trasmissione della proprietà e della leadership ispirate a criteri di responsabilità, meritocrazia, spirito di sacrificio, adattabilità al cambiamento, atteggiamento di umiltà, ascolto e ricerca del positivo da parte del successore o dei successori. È intuibile, infatti, come la successione dell’imprenditore-fondatore, in quanto figura carismatica, identificata completamente con l’impresa stessa, e il passaggio generazionale in presenza di differenti successibili, comporti il problema della scelta del leader, tutelando il contrapposto interesse degli altri successibili e tentando di favorire l’accettazione del prescelto tramite la condivisione delle strategie e delle scelte (art. 9, Criteri C.2, C.3, C.4).
La pianificazione successoria, attuabile per mezzo di previsioni di statuto a ciò finalizzate, può senz’altro raggiungersi anche tramite l’utilizzo di schemi negoziali che consentano di trasmettere l’azienda – o il pacchetto delle partecipazioni – a uno o più beneficiari senza tralasciare la soddisfazione di coloro che su quei beni, al momento dell’apertura della successione dell’imprenditore, potranno vantare diritti tutelati dalla legge.
Alcuni fatti di cronaca degli ultimi anni hanno fatto tornare d’attualità le vicende collegate alla trasmissione dell’impresa, in presenza di più legittimari e in assenza di una strategia pianificata in vita dal dante causa e, più che altro, la circostanza di come sia opportuno individuare un successore nella gestione dell’impresa in epoca anteriore all’apertura della propria successione. I dissidi familiari hanno impedito, in non rari casi, di trovare una soluzione condivisa tra i componenti della famiglia che privilegiasse un ragionato cambiamento di governance, in funzione della continuità dell’attività nel gruppo familiare, alimentando, viceversa, il contenzioso e l’allontanamento tra familiari.
Nel panorama economico italiano composto da una miriade di aziende medie o piccole, o comunque fortemente connotate dalla presenza dell’imprenditore, il tema di come impostare la successione all’interno dell’azienda diviene, dunque, di fondamentale importanza. Ancor più importante e delicato se si pensa alle possibili conseguenze derivanti dalla disgregazione dell’azienda, a causa di una gestione disordinata e non programmata del passaggio generazionale.
La programmazione e l’esecuzione di questo passaggio comporta un lungo processo che deve essere affrontato per tempo, evitando la tendenza di limitare l’approccio con un’ottica di breve periodo.
La preparazione implica aspetti di natura affettiva, psicologica, organizzativa, gestionale, economica e finanziaria; tutti aspetti che devono essere affrontati dall’imprenditore che, mai come in questo caso, deve essere un “buon padre di famiglia”.
Il buon padre di famiglia deve sempre considerare quale possa essere il futuro migliore per i propri figli. In quest’ottica, non può escludersi a priori che alla fine la scelta migliore possa anche essere quella di monetizzare l’azienda e consentire ai figli di intraprendere agevolmente la propria strada.
Il presente studio, tuttavia, si limiterà ad esaminare la successione di uno o più discendenti all’interno dell’impresa o della società tramite l’istituto del patto di famiglia e a fornire un sintetico confronto con gli altri strumenti che la Legge mette a disposizione per queste finalità.
- L’analisi delle specifiche esigenze familiari
Il “bene azienda” coinvolge, senza dubbio, l’interesse di vari stakeholders. Infatti, l’azienda ha una rilevanza sociale che, oltre all’imprenditore, deve andare incontro, contemperandole, alle attese della famiglia in quanto soggetto che usufruisce degli utili, ma non solo, del personale dipendente, dei clienti
e dei fornitori, dei finanziatori bancari o commerciali e, più in generale, delle comunità di riferimento sia territoriali (lo Stato nelle sue articolazioni) sia relazionali.
Tutte queste realtà sono interessate a che l’azienda preservi la sua ordinata gestione e continui a produrre ricchezza materiale, economica e sociale. Anche la questione del passaggio generazionale, configurando una fase di sviluppo, deve cercare di tutelare, nella massima misura possibile, gli interessi di ciascuno dei soggetti coinvolti.
Per cominciare l’imprenditore, o meglio la famiglia dell’imprenditore, deve valutare quali siano le forme migliori per tutelare gli interessi dei figli e per permettere loro di assecondare, nei limiti del possibile, le proprie aspettative e attitudini.
La valutazione complessiva di tali esigenze e interessi varia in relazione ai mutati contesti in cui la famiglia e l’azienda si trovano, evolvendosi sia per l’ambiente esterno sia per il trascorrere del tempo. Così, in una fase di figli giovani, la necessità primaria per l’imprenditore sarà probabilmente quella di garantire la stabilità economica della famiglia orientandosi verso formule assicurative che possano salvaguardare i membri della famiglia in caso di morte o di gravi invalidità. A ciò si potrà affiancare anche una forma previdenziale volta ad accumulare mezzi economici destinati alla formazione (università, master, studio all’estero, ecc.).
Successivamente occorrerà, con lo sforzo di tutta la famiglia, cercare di comprendere quale sia la strada migliore per ciascuno dei propri membri. Occorrerà anche comprendere, e questo è forse il passaggio più delicato, se e quali tra i figli abbiano le capacità per sostituire nel tempo l’imprenditore. Nel caso in cui più di uno abbia le caratteristiche sufficienti per la conduzione aziendale, sarà anche necessario individuare le capacità relazionali tra gli stessi e, se del caso, iniziare a immaginare un’organizzazione aziendale che preveda la ripartizione delle funzioni.
L’esito della valutazione può portare anche all’amara conclusione che nessuno sia in grado (o abbia voglia) di proseguire nell’attività. Occorrerà dunque volgere lo sguardo all’esterno per valutare forme alternative di passaggio gestionale. Anche tale ultima soluzione deve essere attentamente programmata per evitare che il trascorrere del tempo ed eventuali conflitti gestionali possano portare a una repentina perdita di valore del “bene azienda”.
Restando al tema di interesse, una volta individuato il soggetto o i soggetti, che nell’ambito familiare possono andare avanti nella conduzione dell’impresa, sarà necessario analizzare anche le esigenze degli altri familiari coinvolti, in maniera da assicurare loro sufficienti garanzie economiche anche al fine di salvaguardare la sostanziale equità di trattamento garantita, prima ancora che dalle norme del codice civile, dalle leggi naturali insite nell’animo umano. I mezzi economici possono essere forniti o attingendo al patrimonio personale dell’imprenditore, ipotesi forse preferibile, oppure addossandone il relativo onere all’assegnatario dell’azienda come previsto dall’articolo 768-quater c.c..
Prima ancora di procedere alla valutazione dell’azienda occorre individuare se all’interno di essa si trovino elementi esuberanti che non sono necessari alla sua conduzione ma che si trovano nel patrimonio per una stratificazione storica.
Ci riferiamo in particolare alla presenza di immobili non strumentali e all’eccesso di liquidità eventualmente investita in attività finanziarie. Peraltro, nei limiti del possibile, sarà necessario non procedere a forzate divisioni del patrimonio aziendale, che possano comprometterne la gestione. A esempio, sarà sempre preferibile che al soggetto a cui sarà attribuita l’azienda, siano assegnati anche i beni immobili in cui la stessa è condotta anche se formalmente intestati ad altri soggetti.
Per quantificare i valori in gioco è necessario procedere all’inventario dell’intero patrimonio personale. In questa fase si esplica la professionalità del Commercialista che potrà essere chiamato a fornire valutazioni di tipo economico sui vari asset personali, in particolare quella dell’azienda (vedi la sezione dedicata ai profili valutativi).
Il Commercialista deve porre particolare attenzione nell’individuare e nel quantificare i rischi aziendali, esistenti e latenti, che troveranno esplicitazione in una eventuale appostazione di fondi per le valutazioni di tipo patrimoniale e nell’opportuna individuazione del tasso di rischio e dell’orizzonte temporale per le valutazioni che comportano capitalizzazioni di redditi o flussi finanziari attesi nel futuro. Infatti, la valutazione dell’azienda sarà spesso confrontata con beni dal valore certo o comunque molto probabile (liquidità, titoli, immobili, ecc.).
Senza per il momento entrare nel dettaglio della disciplina del patto di famiglia, è opportuno sin d’ora anticipare che l’istituto giuridico si propone l’obiettivo di preservare l’integrità del ruolo sociale dell’impresa in maniera che la sua proficua continuazione possa tutelare gli interessi che vi ruotano intorno, in primis la preservazione dei rapporti di lavoro, pur senza dimenticare la pari dignità di trattamento dei familiari dell’imprenditore.
In particolare, l’istituto si pone in deroga all’ordinaria disciplina successoria prevedendo espressamente che esso non configura violazione del divieto dei patti successori contemplato dall’articolo 458 c.c. (vedi la sezione dedicata ai profili civilistici). Inoltre, permette di cristallizzare i rapporti all’epoca di stipulazione del patto e non più a quella successiva dell’apertura della successione.
Per espressa previsione normativa dell’articolo 768-quater il patto di famiglia non è soggetto ad azione di riduzione e di collazione (vedi la sezione dedicata ai profili comparativi). Si viene così ad assicurare la continuità aziendale nonché a garantire una stabilità di rapporti con la definizione, alla data dell’atto, del valore dei beni attribuiti ai soggetti non partecipanti al patto (in proposito, l’articolo 768-quater, comma 3, cc.: “I beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati”).
Ancora, il patto di famiglia, prevedendo il breve termine di un anno per l’impugnazione con azione di annullamento, consente di fissare meglio delle donazioni, la definitività del patto.
Infine, il patto di famiglia può avere a oggetto sia l’azienda sia le quote di partecipazione in società; si viene così a consentire la circolazione dell’azienda all’interno del nucleo familiare in qualsiasi forma essa sia esercitata.
1.3. La necessaria tutela dei rapporti consolidati con banche e fornitori
L’impresa è caratterizzata da una serie di rapporti con l’esterno che ne valorizzano oltre che la funzione
economica anche quella sociale.
Limitandoci ai soggetti che immettono risorse nell’azienda è opportuno esaminare i rapporti che si instaurano con le banche e con i fornitori. Entrambi questi tipi di rapporto si caratterizzano per il fatto di essere permeati da una componente senza dubbio economico-finanziaria ma anche da una componente interpersonale e reputazionale.
Il passaggio generazionale deve essere condotto avendo cura di non incrinare rapporti costruiti con un lavoro lungo e costante.
Alle banche dovrà essere assicurata la continuità dell’impresa almeno con la stessa efficienza e correttezza precedente. Potrà essere probabilmente utile che l’intera operazione realizzata con il patto di famiglia sia portata a conoscenza del ceto bancario per consentire le opportune valutazioni e l’espressione di eventuali richieste.
Sarà forse necessario che siano redatti o aggiornati i budget previsionali per individuare le nuove eventuali necessità finanziarie identificando il corretto mix tra risorse a breve e a medio-lungo termine. Ma sarà anche importante che l’assegnatario dell’azienda sia già inserito nell’azienda stessa di modo che anche operativamente il passaggio si presenti come una continuità nella gestione aziendale. Se vogliamo, a partire dalla scelta del successore, tutto il passaggio è condotto con questo scopo.
Potrà inoltre essere necessario che il genitore continui a mantenere, almeno nella fase inziale, le garanzie, personali o eventualmente reali, che egli aveva concesso a suo tempo. Ciò per poter assicurare la disponibilità delle risorse finanziarie e consentire l’ordinato svolgimento dell’attività o, quanto meno, evitare un aggravio di oneri finanziari. Peraltro, quanto meno come obiettivo di medio- lungo periodo, tali garanzie dovranno essere sostituite con mezzi forniti dall’assegnatario dell’azienda.
Anche i rapporti con i fornitori dovranno essere preservati per garantire la continuità degli approvvigionamenti. Evidentemente i livelli di importanza e di approccio variano in funzione della fungibilità o meno dei beni forniti, essendo quasi esclusivamente di natura economica per i fornitori di utilities e coinvolgendo invece aspetti tecnici e relazionali per gli altri. In buona sostanza, sarà necessario far percepire che la gestione dell’impresa proseguirà secondo i binari tracciati e, possibilmente, anche migliorata con le opportune iniziative che la gioventù potrà recare.
Se l’operazione è finalizzata alla preservazione della continuità dell’azienda, il passaggio non dovrà mai essere sfruttato come momento per stralciare debiti.
1.4. La valutazione dell’opportunità di un periodo di affiancamento nella governance aziendale
L’evoluzione richiede anche un cambiamento progressivo di mentalità sia da parte dell’imprenditore, che deve passare dal “so fare solo io” al “io so fare tanto ma posso insegnarlo agli altri”, sia da parte degli assegnatari che devono abituarsi a prendere decisioni con autonomia vieppiù crescente con il passare del tempo.
Da quanto siamo andati dicendo si ricava un principio fondamentale. Il passaggio generazionale non potrà risolversi in un momento, ma è un processo di lunga durata che comincerà con l’introduzione dei successori, e anche dei potenziali successori, in azienda con mansioni e responsabilità via via crescenti senza avere timore o remore ad affidare in una prima fase compiti non qualificati o qualificanti.
Questa impostazione consentirà sia di orientare meglio l’individuazione del o dei successori da parte dell’imprenditore, sia di far maturare nei discendenti la consapevolezza della scelta che stanno per compiere e delle responsabilità che si assumono.
Sul versante esterno si permetterebbe anche ai terzi (banche, fornitori, ecc.) di iniziare a conoscere le nuove generazioni e capirne la sostanziale affidabilità per le scelte future.
A esempio, si potrà iniziare con l’affidare responsabilità di reparto, di settore, di produzione o commerciali. Successivamente si penserà alla cooptazione negli organi di governance con affidamento di deleghe.
Solo dopo aver maturato la propria valutazione e analizzata la posizione del o dei discendenti designati, nonché quella degli altri aventi diritto, si potrà iniziare a esaminare le modalità e i contenuti di eventuali atti.
La fase di affiancamento potrà essere protratta anche successivamente al trasferimento dell’azienda o del pacchetto societario. Allo scopo potranno giovare alcune norme già previste nell’ordinamento vigente anche se forse un po’ inutilizzate.
In particolare, per le società a responsabilità limitata, ci si riferisce alla riserva di diritti amministrativi che può essere utilizzata per consentire all’imprenditore di mantenere ruoli e poteri all’interno degli organi di governance oppure anche a riserve di diritti particolari nella distribuzione degli utili (in proposito l’articolo 2468, comma 3, c.c. dispone che: “Resta salva la possibilità che l’atto costitutivo preveda l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società o la distribuzione degli utili”).
1.5. Il ruolo del consulente
All’interno di questo processo, senza nulla togliere alla professionalità di altre categorie, quali i notai o gli avvocati, un ruolo di primo piano tocca al Commercialista per i rapporti che si sono instaurati con l’imprenditore e, spesso, anche con la sua famiglia.
Infatti, l’attività del Commercialista, comporta il consolidamento nel tempo di rapporti che tendono a trascendere l’aspetto puramente professionale per divenire una sorta di confidente dell’imprenditore che inizia a raccontare aspetti, gioie e preoccupazioni, della sua vita familiare.
Sostanzialmente, in tutte le fasi del lungo percorso di avvicendamento, l’affiancamento del
Commercialista si rivela opportuno e raccomandabile, se non, addirittura, indispensabile.
Nelle fasi di primo affiancamento, il Commercialista è in grado di aiutare l’imprenditore a capire e valutare le capacità dei potenziali successori nell’impresa, affiancandolo anche nella individuazione delle deleghe e delle responsabilità che possono essere progressivamente trasferite.
Sarà anche chiamato a esprimere valutazioni e giudizi sui vari asset del patrimonio personale, ma soprattutto sarà in grado di addivenire a una valutazione dell’azienda che sia il più possibile obiettiva. Come si vedrà nel contesto del presente lavoro, l’elaborazione di apposita valutazione, diviene anche opportuna come documento da allegare all’atto sulla base del quale i partecipanti adottano le proprie risoluzioni.
Soprattutto in questa fase sarà necessaria una forte caratteristica deontologica e una forte autorevolezza che gli eviti di trovarsi coinvolto in questioni di parte.
Affiancherà poi l’imprenditore e i suoi successori nell’impostazione dell’operazione di passaggio vera e propria individuando e proponendo possibili soluzioni ai vari aspetti correlati quali costituzione o modifiche societarie, sia per quanto riguarda l’assetto documentale (statuti, patti parasociali), sia per quanto più attiene all’assetto organizzativo. Ovvia attenzione dovrà essere prestata alle problematiche fiscali sia di breve che di lungo periodo.
Il ruolo del Commercialista si presenterà ancora importante per definire i nuovi assetti organizzativi, l’individuazione di aree di deleghe, soprattutto se i successori sono più di uno, per impostare e definire i documenti di programmazione economica e finanziaria (budget, business plan, ecc.) utili sia per l’ordinata gestione, sia quale documentazione di supporto alle richieste di mantenimento dei finanziamenti esistenti ovvero alla concessione di nuove linee di credito. Diventa quindi necessario che il Commercialista si faccia trovare preparato, professionalmente e umanamente, ad affrontare questa fase della vita dell’imprenditore e a suggerire, preventivamente e per quanto possibile senza scaramanzie, la pianificazione del passaggio generazionale, tutelando l’interesse di tutti i soggetti interessati.
Per usare un’espressione medica, il Commercialista deve essere in grado di curare la malattia ma anche, e soprattutto, di curare il malato.
SEZIONE II – PROFILI CIVILISTICI (di Cristina Bauco)
2.1. L’istituto del patto di famiglia
Al patto di famiglia è dedicato il Capo V–bis del Titolo IV (sulla divisione), del Libro II (Delle successioni) del codice civile. L’istituto è tratteggiato in sette disposizioni, dall’articolo 768-bis c.c. all’articolo 768- octies c.c., inserite dall’articolo 2 della legge 14 febbraio 2006, n. 55.
Come recita l’articolo 768-bis c.c., nel fornirne la nozione, “È patto di famiglia il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote ad uno o più discendenti”.
Sin da subito, può anticiparsi che si tratta di:
– un contratto nominato, in quanto puntualmente disciplinato dall’ordinamento;
– un contratto a forma solenne, dal momento che per la sua stipulazione si richiede la forma
dell’atto pubblico, a pena di nullità;
– un contratto consensuale;
– un contratto inter vivos, in quanto l’effetto traslativo si realizza immediatamente alla
stipulazione del patto di famiglia e non in un momento futuro rispetto alla conclusione, come avviene nei negozi mortis causa.
Le anzidette precisazioni sono di una certa rilevanza, dal momento che, a seguito dell’introduzione dell’istituto, i primi commentatori ne hanno discusso la natura giuridica, proponendo peraltro soluzioni differenziate.
Secondo alcuni, il patto di famiglia sarebbe essenzialmente una donazione modale, dove il modus sarebbe rappresentato dall’onere imposto agli assegnatari di liquidare le quote dei legittimari non assegnatari.
La ricostruzione dell’istituto in questi termini non è apparsa convincente. Sebbene siano evidenti le affinità con la donazione, occorre mettere in evidenza anche le non poche differenze lessicali impiegate dal legislatore nella descrizione della fattispecie. Il raffronto con l’articolo 769 c.c., ad esempio, fa emergere che nella nozione di patto di famiglia è assente il riferimento allo spirito di liberalità e che conseguentemente non è stato impiegato il verbo “arricchire” per descrivere l’atto di disposizione effettuato a favore del discendente assegnatario.
Si noti, inoltre, che nel definire la donazione modale, il legislatore dell’articolo 793 c.c. specifica che: “… la donazione può essere gravata da un onere …” e che, dunque, il modus cui la norma fa riferimento rappresenta solamente un elemento accidentale del contratto cui inerisce. Diversamente, l’obbligo di liquidazione dei legittimari imposto all’assegnatario è previsto ex lege nell’ambito del contratto di cui agli articoli 768-bis e ss. e non rimesso alla discrezionalità del disponente e rappresenta un elemento essenziale della fattispecie.
È consentito ipotizzare che il patto di famiglia sia stato ideato quale contratto distinto dalla donazione con una sua peculiare disciplina o, per converso, ammettere che rappresenti un tipico esempio di negozio giuridico in cui sono contenuti più atti: donazioni, atti solutori, rinunzie ai diritti di legittima.
Allo stesso modo, nell’individuazione della causa del contratto, è evidente che essa non è rappresentata solo o necessariamente dallo spirito di liberalità, potendosi pertanto discorrere di causa “mista”: accanto alla causa di liberalità propria del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni posto in essere dal disponente a favore dei discendenti assegnatari, convivrebbe una causa solutoria relativa alla liquidazione anticipata dei diritti spettanti al coniuge e ai legittimari non assegnatari che partecipano al contratto (e dunque potrebbe trattarsi di un negotium mixtum cum donatione).
Non è tutto. Facendo leva sulla ricostruzione della causa in termini di funzione economico–individuale del contratto, e quindi di ragione dell’affare o funzione pratica che le parti hanno assegnato al contratto, non può sottacersi che il patto di famiglia è posto in essere per assicurare il passaggio generazionale dell’impresa e/o delle partecipazioni societarie e, pertanto, per realizzare una sorta di successione anticipata. E proprio in questa funzione pratica si potrebbe ravvisare la causa del nuovo tipo contrattuale “patto di famiglia”.
Come accennato, va segnalata la tesi di quanti, tra i primi commentatori, ritengono che il patto possa essere qualificato come un esempio di donazione modale ex articolo 793 c.c. e che il modus, posto a carico dell’assegnatario e a favore dei legittimari esclusi, sia rappresentato dalla liquidazione della somma corrispondente al valore della quota di legittima che sarebbe loro eventualmente spettata al momento dell’apertura della successione dell’imprenditore.
In proposito si è sostenuto che quando beneficiario del modus è un terzo – nel caso di specie, dunque, intendendo il legittimario come terzo e non parte del contratto – la donazione modale si atteggia a contratto a favore di terzo, trovando applicazione la relativa disciplina. Nell’ambito di questo orientamento, non può sottacersi la tesi di quanti, movendo da diversi assunti, ravvisano nel patto un’ipotesi di stipulazione effettuata a favore di terzi contenuta in un contratto a prestazioni corrispettive. A una simile ricostruzione non osterebbe neanche la circostanza in base alla quale i legittimari non assegnatari devono partecipare al contratto ai sensi dell’articolo 768-quater c.c. in quanto quello descritto nella novella sarebbe un tipico esempio di contratto a favore di terzo con adesione – fattispecie descritta nel codice del 1865 – rinvenibile sia nell’articolo 1689 c.c. relativamente al contratto di trasporto, sia nell’articolo 1273 c.c. in materia di accollo.
Nel caso del patto di famiglia, il consenso del legittimario (beneficiario della stipulazione) si renderebbe dunque necessario perché costui non consegue un beneficio direttamente dalla stipulazione e perché tale beneficio è altresì accompagnato da una “rinuncia” in merito alla futura successione del disponente: in altri termini, la partecipazione del terzo (legittimario non assegnatario) non sarebbe richiesta ai fini della validità del patto bensì solamente per tutelare le ragioni, che altrimenti sarebbero compromesse, del legittimario medesimo.
Altri hanno ravvisato nel patto di famiglia un tipico esempio di istituto finalizzato a garantire la successione anticipata, rispetto al momento di effettiva apertura della successione, in una parte considerevole dei beni del disponente: sotto il profilo causale, infatti, il patto di famiglia realizza un trasferimento in funzione successoria con natura divisionale.
L’effetto della devoluzione di tali beni sarebbe anche definitivo, dal momento che quanto ricevuto dai contraenti, per espressa previsione della legge, non è soggetto né a collazione né a riduzione, così come definitiva sarebbe la quota liquidata ai legittimari in compensazione di legittima nonché, elemento ancor più probante della definitività delle pattuizioni, la somma spettante ai legittimari sopravvenuti.
In quest’ottica, il patto di famiglia sarebbe un negozio inter vivos a contenuti successori con effetti divisionali di una parte dei beni del disponente, a cui applicare, se compatibili, da un lato le norme dettate in tema di donazione (per quanto concerne i requisiti e la disciplina del patto), dall’altro, le regole sulle successioni relativamente alla identificazione dei presupposti e degli effetti. A titolo d’esempio, troverebbero applicazione le disposizioni inerenti all’indegnità o alla capacità di ricevere del tutore e del protutore, ovvero alla rescissione per lesione di cui all’articolo 763 c.c.
Depone a favore della anzidetta ricostruzione, la circostanza per cui l’intera disciplina, come
accennato, risiede nel titolo IV del Libro delle successioni, dedicato appunto alla divisione. Del resto, si è da più parti ritenuto che l’assenza di uno stato di comunione sia da giudicare irrilevante ai fini della qualificazione di una fattispecie in termini divisionali.
Prima di pervenire a una qualche conclusione circa la qualificazione della natura giuridica del patto di famiglia, l’articolo 768-bis c.c. rappresenta un valido punto di partenza per tratteggiare i tratti caratterizzanti l’istituto.
Come accennato, la nozione del patto di famiglia che reca l’articolo 768-bis c.c. contiene alcune
significative informazioni circa l’oggetto del contratto e circa i soggetti delle relative attribuzioni.
Relativamente al primo aspetto, vale a dire all’oggetto del contratto, per espressa previsione del legislatore, il patto di famiglia realizza il trasferimento, totale o parziale, dell’azienda da parte dell’imprenditore o delle quote da parte del titolare di partecipazioni societarie.
Con riferimento ai soggetti interessati dalla vicenda, l’articolo 768-bis c.c. enumera l’imprenditore e il titolare di partecipazioni societarie da una parte, uno o più discendenti dall’altra. Tale elencazione, peraltro, non è esaustiva dal momento che anche il coniuge e tutti coloro che risulterebbero legittimari del disponente se all’epoca della sottoscrizione del patto di famiglia si aprisse la successione, devono partecipare al contratto, come si evince dal disposto dell’articolo 768-quater c.c.
Si è già detto che il patto di famiglia è un contratto consensuale e nominato, con causa tipica e complessa e al contempo differenziata rispetto ad altre tipologie contrattuali. Aderendo alla tesi secondo la quale il patto di famiglia è un contratto a causa mista, in esso è dato rinvenire:
- natura divisionale, perché i beni oggetto del trasferimento vengono separati dal restante patrimonio del disponente che al momento dell’apertura della successione di costui cadranno nella comunione ereditaria;
- natura di liberalità, considerata l’attribuzione che il disponente fa a favore dell’assegnatario;
- natura solutoria, con riferimento alla liquidazione dei legittimari non assegnatari a cui è tenuto l’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni societarie.
Elementi caratterizzanti il contratto si rinvengono anche nelle previsioni che introducono nell’ambito della vicenda alcune deroghe alle regole proprie del diritto successorio, deroghe contemplate non nella “Nozione” del contratto di cui all’articolo 768-bis c.c., bensì nelle disposizioni successive.
Si tratta dell’esenzione dall’azione di riduzione e dall’obbligo di collazione previste nell’articolo 768- quater, comma 4, c.c. (vedi paragrafo 5.8) in forza del quale “quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione”. I beni assegnati con il patto di famiglia, vale a dire sia l’azienda o le partecipazioni trasferite all’assegnatario, sia i beni o il denaro liquidati da costui ai legittimari non assegnatari, non possono essere aggrediti, al momento di aperura della successione del disponente, dal legittimario partecipante al patto (o anche sopravvenuto che sia stato liquidato e soddisfatto nelle sue ragioni ex articolo 768-sexies c.c.) che ritenendosi leso agisca in riduzione ex articolo 557 c.c.
I beni oggetto del patto di famiglia sfuggono, inoltre, ex lege, alla collazione ex articolo 737 c.c., in sede di divisione del patrimonio ereditario.
Sono queste ultime disposizioni che traducono la volontà del legislatore di rendere definitive le attribuzioni effettuate col patto di famiglia e cristallizzare, quanto meno in relazione all’azienda o alle partecipazioni societarie, gli effetti del trasferimento in via anticipata.
Sempre l’articolo 768-quater c.c., prevede, al terzo comma, che i beni assegnati con il patto di famiglia ai non assegnatari dell’azienda, secondo il valore che viene loro attribuito nel patto, sono imputati alle quote di legittima ad essi spettanti.
Dovrebbe trattarsi dell’imputazione ex se che avviene al momento della reale apertura della successione del disponente regolata dagli articoli 533 e 564, secondo comma, c.c., e operante in sede di riunione fittizia: i beni assegnati verranno pertanto imputati alla legittima secondo il valore attribuito nel patto di famiglia e non calcolato all’apertura della successione.
Come anticipato nella sezione introduttiva del presente documento, un ulteriore aspetto che caratterizza la vicenda concerne l’attività valutativa che necessariamente occorrerà espletare per poter raggiungere certezza circa il valore dei beni trasferiti all’assegnatario e circa la somma da liquidare ai legittimari non assegnatari, somma calcolata sul valore dell’azienda o delle partecipazioni trasferite con il patto di famiglia e corrispondente al valore delle quote di legittima previste dagli artt. 536 e ss. c.c. (vedi la sezione dedicata ai profili valutativi).
2.2. La forma del patto di famiglia
Come accennato, il patto di famiglia è un contratto a forma solenne. Ai sensi dell’articolo 768-ter c.c., infatti, il contratto deve essere concluso per atto pubblico, a pena di nullità. La norma non aggiunge altra specificazione.
Invero, se si dovesse accettare la teoria che rinviene nell’istituto in esame un esempio di donazione modale, si potrebbe ritenere necessario all’atto della stipulazione l’intervento di due testimoni secondo le previsioni della legge notarile.
2.3. La compatibilità con le disposizioni dettate in materia di impresa familiare e il rispetto delle differenti tipologie societarie
Nella ricostruzione dell’istituto, degna di rilievo è la previsione che richiama la compatibilità del patto di famiglia “con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie …” nell’articolo 768-bis c.c. In altri termini, occorre comprendere quale siano le disposizioni dettate in materia di impresa familiare non superabili in occasione della stipulazione di un patto di famiglia.
L’impresa familiare disciplinata dall’articolo 230-bis c.c. – introdotto dalla legge di riforma del diritto familiare (l. 19 maggio 1975, n. 151) – è un’impresa individuale nell’ambito della quale collaborano i familiari specificatamente indicati nel comma 2 dell’articolo 230-bis c.c., vale a dire il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo grado. Questi soggetti devono svolgere in maniera continuativa la propria attività lavorativa nell’ambito della famiglia o nell’ambito dell’impresa familiare, salvo che sia configurabile un diverso rapporto di lavoro (ad esempio subordinato).
Come è noto la preoccupazione del legislatore è stata quella di tutelare la posizione dei familiari dell’imprenditore che lavorano nell’ambito della sua impresa, riconoscendo loro una serie di diritti che non sarebbero altrimenti azionabili, diritti che sono puntualmente indicati nel comma 1 dell’articolo 230-bis c.c.
Alla luce di quanto sopra, nell’introduzione dell’istituto del patto di famiglia, occorreva prestare particolare attenzione alle ipotesi in cui oggetto del patto stesso divenga il trasferimento di un’impresa a cui collaborino ex articolo 230-bis c.c. anche soggetti diversi dagli assegnatari.
La previsione che impone il generale adeguamento del patto alle regole che disciplinano l’impresa familiare in essere, conduce a ritenere che ai familiari non assegnatari che continuino a collaborare nell’impresa familiare può essere riconosciuto il diritto al mantenimento in proporzione alla qualità e alla quantità del lavoro prestato all’interno dell’impresa; agli stessi soggetti dovrebbe essere riconosciuto anche il diritto di partecipazione agli utili e agli incrementi, indipendentemente dalla somma che l’assegnatario prescelto è tenuto a liquidare.
Più problematica, invece, appare la questione relativa al riconoscimento del diritto di prelazione di cui all’articolo 230-bis, quinto comma, c.c. in capo ai familiari collaboratori. Aderendo alla tesi che riconduce il patto di famiglia allo schema della donazione modale, infatti, il diritto di prelazione non dovrebbe per definizione emergere, trattandosi di trasferimento gratuito dell’azienda. Diversamente da quanto sopra, risulta di una certa evidenza che, in forza alle disposizioni di cui all’articolo 768-bis c.c., il diritto di prelazione dovrebbe essere riconosciuto a vantaggio dei collaboratori familiari a prescindere dalla causa negoziale che si intenda attribuire al patto di famiglia.
Secondo l’orientamento prevalente, la formulazione letterale delle disposizioni e l’impiego del lemma “compatibilmente”, implicano che la stipulazione del patto non possa trascendere dal considerare la disciplina dell’impresa familiare nella sua interezza, ivi comprese le disposizioni dettate sul diritto di prelazione riconosciuto ai familiari-collaboratori. In tal modo, si verrebbero a garantire le posizioni e gli interessi dei familiari che già prestano la loro attività nell’impresa familiare e che, per tal motivo, sono sicuramente addentro al meccanismo e alle logiche sottese all’esercizio dell’impresa da parte del titolare.
In presenza di un’impresa familiare, ex articolo 230-bis c.c., pertanto, il richiamo all’intera disciplina declinata nell’articolo 230-bis c.c. può consentire che l’impresa sia gestita da un discendente già collaboratore dell’imprenditore e non da un soggetto che, ancorché discendente, non vi abbia lavorato e non sia realmente interessato alle sorti della stessa. Con il conseguente corollario che, laddove i familiari collaboratori siano solo ed esclusivamente i discendenti assegnatari dell’azienda in forza del
trasferimento ideato con il patto di famiglia, il diritto di prelazione dovrebbe essere per definizione
escluso. Se, al contrario, all’impresa familiare collaborano familiari che non siano discendenti
dell’imprenditore ovvero che non siano i discendenti a cui l’imprenditore intende trasferire l’azienda, la stipulazione del patto di famiglia risulta necessariamente condizionata alla rinuncia all’esercizio del diritto di prelazione da parte di questi ultimi.
Come accennato, l’articolo 768-bis c.c. chiarisce che il trasferimento delle quote debba avvenire “… nel rispetto delle differenti tipologie societarie …”. Occorrerà pertanto prendere in considerazione le specifiche regole dettate dall’ordinamento o dallo statuto delle società circa il trasferimento delle partecipazioni detenute dal disponente.
È necessario soffermarsi, allora, sull’individuazione dei requisiti oggettivi del patto di famiglia.
2.4. I requisiti oggettivi del patto di famiglia
L’articolo 768-bis c.c., come anticipato, precisa che oggetto del trasferimento possono essere:
- l’azienda, in tutto o in parte;
- le quote sociali, in tutto o in parte.
Per quanto attiene alla possibilità di trasferire l’azienda, il patto di famiglia può avere quale oggetto il trasferimento sia dell’intero compendio, sia di una parte di esso e, quindi, oggetto del patto può essere anche, ad esempio, un ramo dell’azienda.
Oggetto del trasferimento può essere la nuda proprietà dell’azienda, conservando quindi il disponente il diritto di usufrutto.
Non sembrano esorbitanti eventuali poteri di disposizione o di gestione sull’azienda che il disponente intenda mantenere, realizzabili, a titolo d’esempio, tramite il riconoscimento del diritto di usufrutto sui cespiti ovvero tramite l’apposizione di una condizione di reversibilità con cui si subordini il “ritorno” dell’azienda nella titolarità del disponente in caso di premorienza del beneficiario od anche di “mala gestio” da parte del medesimo.
Allo stesso modo, nel patto di famiglia, potranno aggiungersi clausole comportanti a carico dell’assegnatario il divieto di alienazione per un determinato periodo di tempo, sulla scorta di quanto previsto dall’articolo 1379 c.c., ovvero la corresponsione a favore del disponente di una rendita vitalizia che richiederà comunque che, nella valutazione del complesso aziendale periziato ai fini del calcolo della somma da liquidare a titolo di compensazione della legittima, si tenga conto dell’entità dell’onere posto a carico dell’assegnatario.
Un aspetto degno di nota concerne il trasferimento dell’azienda effettuato dal disponente coniugato e in regime di comunione legale.
Nel caso di cui alla lett. d) dell’articolo 177 c.c., vale a dire quando si tratta di un’azienda gestita da entrambi i coniugi e costituita dopo il matrimonio, che pertanto cade in comunione (c.d. azienda coniugale), il patto di famiglia, in quanto atto di trasferimento, deve essere necessariamente stipulato
da entrambi i coniugi imprenditori. Laddove invece si rientri nella fattispecie delineata nell’articolo
177, comma 2, c.c., vale a dire di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, rispetto alle quali la comunione è de residuo e concerne solo gli utili e gli incrementi che esisteranno al momento dello scioglimento, al contrario, l’imprenditore potrà effettuare il trasferimento dell’azienda indipendentemente dalla volontà dell’altro coniuge.
Per quanto attiene al trasferimento delle partecipazioni societarie, si reputa necessario chiarire quale sia l’ambito applicativo delle disposizioni, rammentando che non esistono posizioni univoche circa la ricomprensione nella disciplina dei trasferimenti relativi alle partecipazioni detenute in ciascun tipo societario.
Alcuni tra i primi commentatori, facendo leva sul dato testuale dell’articolo 768-bis c.c., hanno sostenuto che il legislatore abbia inteso riferirsi esclusivamente al trasferimento di quote di società personali e, nell’ambito delle società di capitali, solamente a quello relativo a quote di s.r.l., stante il carattere personalistico assunto da questo tipo sociale a seguito della riforma del diritto societario. Pertanto, secondo tale orientamento, non rientrerebbe nelle ipotesi contemplate dall’articolo 768-bis
c.c. il trasferimento di azioni. Altri, al contrario, fondandosi sull’assenza di limiti testuali, hanno ritenuto che il riferimento alle quote sia un atecnicismo del legislatore e che, pertanto, si possa trattare del trasferimento di qualunque partecipazione societaria imputabile al disponente.
Altri ancora hanno escluso l’applicabilità dell’istituto nei trasferimenti di partecipazioni di società in cui non esista un’effettiva attività di impresa; come, ad esempio, avviene nel caso di società di mero godimento e delle azioni negoziate in mercati regolamentati o emesse da società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.
Ad ogni buon conto, trattandosi di trasferimento di partecipazioni, le previsioni dell’articolo 768-bis c.c. andranno necessariamente coordinate con le disposizioni specificatamente indirizzate alla circolazione delle azioni e al trasferimento di partecipazioni di s.r.l. e di società personali.
In merito al trasferimento mediante patto di famiglia di quote di società di persone, fermo restando l’acquisizione del consenso di tutti i soci ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2252 c.c., se non diversamente disposto dai patti sociali, andrà opportunamente verificato se lo statuto rechi una precipua disciplina relativamente al trasferimento di quote sociali. Troveranno applicazione, in via residuale, le previsioni dettate per il tipo sociale.
A tal riguardo, qualora un socio accomandante intendesse trasferire la propria quota, sarebbe necessario ottenere il consenso dei soci che rappresentino la maggioranza del capitale sociale ai sensi dell’articolo 2322, secondo comma, c.c.
Anche il tema del trasferimento della quota dell’accomandante con un patto di famiglia è stato ampiamente dibattuto dai commentatori. Secondo alcuni, trattandosi di socio finanziatore, senza alcun ruolo nella gestione della società, il trasferimento della quota tramite un patto di famiglia non potrebbe realizzarsi se non dopo aver ottenuto preventiva autorizzazione da parte dei soci accomandatari ex articolo 2320, secondo comma, c.c.. Secondo altri, in considerazione dell’ampio
ambito applicativo dell’istituto tratteggiato dall’articolo 768-bis c.c., il trasferimento può avere ad oggetto anche le quote dell’accomandante, a prescindere da qualsiasi autorizzazione data dagli accomandatari, ai sensi dell’articolo 2322 c.c.: in questo caso, se l’atto costitutivo non preveda alcunché sul punto, la modificazione del contratto sociale e il trasferimento della quota dovrà avvenire con il consenso di tanti soci che rappresentino la maggioranza del capitale sociale.
Nelle ipotesi in cui, oggetto del patto di famiglia siano azioni, occorrerà, in primis, non trascurare le disposizioni di cui all’articolo 2355-bis c.c., in punto di limiti alla circolazione delle azioni, valutando l’esistenza di clausole statutarie che vietino il trasferimento delle azioni: in tali casi, il patto di famiglia potrà essere validamente stipulato solo se risulti decorso il periodo di durata del divieto. Allo stesso modo, andrà valutata l’esistenza di clausole di gradimento presenti nello statuto.
Nelle ipotesi in cui oggetto del patto di famiglia siano quote di s.r.l., le disposizioni di riferimento sono quelle contenute nell’articolo 2469 c.c. che ammette il libero trasferimento delle partecipazioni, sia per atto tra vivi che per successione a causa di morte, salvo contraria disposizione dello statuto.
Il comma 2 dell’articolo 2469 c.c. precisa poi che l’atto costitutivo della s.r.l. possa:
- prevedere l’intrasferibilità delle quote;
- subordinare il trasferimento delle quote al gradimento di organi sociali, di soci o di terzi (a differenza con quanto previsto per la s.p.a. dove il gradimento può essere, solo della società o di altri soci);
- porre condizioni o limiti che in concreto impediscano il trasferimento della partecipazione a causa di morte.
In questi casi il socio o i suoi eredi possono esercitare il diritto di recesso ex articolo 2473 c.c. e l’atto costitutivo può stabilire un termine, non superiore a due anni dalla costituzione della società o dalla sottoscrizione della partecipazione, prima del quale il recesso non può essere esercitato.
In definitiva, può concludersi che laddove lo statuto contenga clausole che vietino il trasferimento delle partecipazioni societarie, tale trasferimento non potrà essere effettuato con il patto di famiglia se il divieto ha carattere assoluto, ovvero potrà essere effettuato solo quando sia decorso il periodo di durata del divieto.
Qualora lo statuto non dovesse stabilire alcunché in punto di trasferimento, le partecipazioni societarie, come visto, si dovranno intendere liberamente trasferibili per atto inter vivos e dunque anche tramite il patto di famiglia.
Infine, se nello statuto sono state inserite clausole di gradimento o di prelazione cui subordinare il trasferimento stesso, da un lato, si dovrà acquisire il gradimento, dall’altro comunicare ai restanti soci la volontà di cedere le partecipazioni detenute al fine di consentire loro il legittimo esercizio del diritto di prelazione. Conseguentemente, la stipulazione del patto di famiglia risulterà condizionata o dall’accettazione del subingresso dell’assegnatario nella compagine societaria espressa dagli organi o dai soci a cui lo statuto riservi l’espressione del gradimento, ovvero subordinata alla rinuncia
all’esercizio della prelazione da parte degli altri soci.
2.5. Le parti del contratto
La vicenda sottesa alla stipulazione del patto di famiglia, concretamente riconducibile alla necessità di
garantire un passaggio generazionale dell’impresa, vede coinvolti diversi soggetti a diverso titolo.
2.5.1 L’imprenditore
Nel definire il patto di famiglia, il legislatore precisa che con esso “l’imprenditore” trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda e “il titolare di partecipazioni societarie” trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote. Sin dai primi commenti, la disposizione in esame ha destato non poche perplessità. In effetti per come formulata, la ratio della previsione non è di immediata percezione. Alcuni tra i primi commentatori, evidenziavano, infatti, come solamente colui che trasferisce l’azienda possa essere qualificato imprenditore e non anche colui che trasferisca la totalità o solo una parte delle proprie quote.
Secondo alcuni, infatti, avendo l’istituto il pregio di favorire il passaggio generazionale delle c.d. società di famiglia, la disposizione dovrebbe essere interpretata restrittivamente, così da limitarne l’applicazione ai soli casi in cui il trasferimento delle partecipazioni comportando per l’assegnatario (cessionario) la possibilità di influire effettivamente sulla gestione dell’impresa, ne garantisca la qualifica di imprenditore. In tal modo, il trasferimento di un piccolo pacchetto azionario di una società quotata, acquistato per mere finalità speculative, sfuggirebbe dall’ambito di applicazione della normativa in esame. Per altri, invece, vista la lettera della legge, le norme in esame troverebbero applicazione anche con riferimento a partecipazioni detenute da un socio di minoranza.
Va al riguardo messo in evidenza che il termine “imprenditore” viene frequentemente impiegato nella novella in modo atecnico. Si pensi, ad esempio, che a fronte della precisazione contenuta nel menzionato articolo 768-bis c.c., da cui parrebbe potersi evincere che il legislatore abbia voluto considerare sia il caso dell’imprenditore che trasferisce l’azienda, sia quello del titolare che trasferisce le partecipazioni societarie detenute, nel successivo articolo 768-quater c.c., relativamente alla partecipazione al contratto, la legge menziona genericamente la successione nel patrimonio dell’imprenditore, senza effettuare alcuna distinzione nel senso di cui sopra.
Tali considerazioni, come considerato anche nel paragrafo precedente, insieme con il tenore letterale delle disposizioni potrebbero suggerire una lettura “estensiva” della disposizione recata dal citato articolo 768-bis c.c. e dunque ammetterne l’applicazione anche nelle ipotesi in cui il trasferimento concerna partecipazioni societarie non significative.
2.5.2 I discendenti assegnatari
Sono necessariamente parte del contratto uno o più discendenti dell’imprenditore. Gli assegnatari del trasferimento, pertanto possono unicamente essere i figli del disponente, sia i nipoti ex filio, ovvero discendenti che, se al tempo della conclusione del patto si aprisse la successione, non siano necessariamente legittimari.
Sono esclusi dall’attribuzione dei beni e delle partecipazioni sia il coniuge, sia i fratelli, sia gli ascendenti (se ancora in vita) dell’imprenditore.
Il legislatore mostra di voler prediligere e favorire una assegnazione, rectius successione, nei beni in linea retta, lasciando alla discrezionalità del disponente di individuare colui che dimostri maggiori capacità manageriali tra i suoi diretti discendenti. Di talché, laddove il predestinato sia un nipote dell’imprenditore, i diritti dei figli di quest’ultimo verranno soddisfatti tramite il meccanismo di cui all’articolo 768-quater c.c..
L’esclusione dell’ascendente consegue alla necessità di utilizzare l’istituto in funzione del passaggio generazionale dell’impresa.
Stessa motivazione sorregge l’esclusione del coniuge dal novero dei possibili assegnatari: quest’ultimo, infatti, non può essere assegnatario del trasferimento mentre partecipa al contratto in quanto legittimario, come previsto dal menzionato articolo 768-quater c.c..
Potrà essere assegnatario un soggetto minore di età o limitatamente capace. In questo caso, avendo il patto di famiglia natura di atto di straordinaria amministrazione ex articolo 320, terzo comma, c.c., l’assegnatario dovrà intervenire in atto debitamente rappresentato e autorizzato.
Nel caso in cui l’assegnatario sia un soggetto coniugato in regime di comunione legale, facendo leva sulla natura di atto di liberalità del patto di famiglia, quanto ricevuto a seguito della stipulazione non dovrebbe ricadere in comunione restando bene personale dell’assegnatario, come dispone l’articolo 179, comma 1, lett. b), c.c.
2.5.3 I legittimari
L’aspetto maggiormente controverso concerne la posizione e il ruolo che i legittimari ricoprono nell’ambito della vicenda caratterizzante il patto di famiglia e, dunque, la loro identificazione come parti del contratto. Tale argomento comporta rilevanti conseguenze in punto di:
- a) qualificazione del patto come contratto bilaterale, trilaterale o plurilaterale;
- b) modalità di partecipazione dei legittimari;
- c) mancata partecipazione dei legittimari non assegnatari alla stipulazione del patto e relative conseguenze circa la validità del patto;
- d) soggezione o meno alla deroga successoria in materia di riduzione o collazione;
- e) identificazione dei legittimari non partecipanti al patto, menzionati dall’articolo 768-sexies c.c. come terzi.
Con mero intento compilativo, può essere il caso di rammentare quali sono i soggetti che per legge
sono i legittimari del disponente.
Come è noto, ai sensi dell’articolo 536 c.c., sono legittimari le persone a favore delle quali la legge riserva una quota di eredità o altri diritti nella successione. E come tali vengono indicati il coniuge, i figli e gli ascendenti (vedi paragrafo 5.2.2).
A tali categorie di successibili, detti anche riservatari, la legge prevede che venga necessariamente attribuita una quota del patrimonio del de cuius (la c.d. legittima o riserva), contrapposta alla quota disponibile di cui, al contrario, questi può disporre liberamente in vita.
La legge individua la quota di riserva differenziandola sia nell’entità, sia con riferimento alla persona del legittimario e al grado di parentela tra quest’ultimo e il de cuius; la legge si occupa, altresì, di specificare la quota spettante a più legittimari in concorso tra di loro.
Ai fini del calcolo della legittima si procede tramite la c.d. riunione fittizia del patrimonio del de cuius, tramite la quale si riuniscono virtualmente sia i beni facenti parte del patrimonio del defunto al momento della morte, sia quelli da esso fuoriusciti perché da lui donati in vita. Sull’asse ereditario così formato si calcola la quota di cui il defunto poteva disporre e conseguentemente si calcola la quota di legittima riservata agli eredi necessari (ex articolo 556 c.c.).
Tutto ciò premesso, la disciplina del patto di famiglia prevede espressamente che il coniuge e coloro che risulterebbero legittimari se si aprisse la successione dell’imprenditore, ancorché non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni sociali, partecipino al contratto (articolo 768-quater, primo comma, c.c.).
La partecipazione del coniuge accanto a quella dei legittimari non è di immediata comprensione, dal momento che il coniuge stesso è un legittimario. Si tratta probabilmente di una precisazione ad abundantiam motivata dall’esclusione del coniuge dal novero degli assegnatari a conferma della chiara vocazione del patto come istituto ideato per consentire il passaggio generazionale dell’impresa.
Tornando alla partecipazione dei legittimari, l’articolo 768-quater, primo comma, c.c. stabilisce che: “Al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore”.
Dall’interpretazione della locuzione “devono partecipare” discendono le differenti letture che si sono fornite alla problematica prima accennata e, cioè, se i legittimari (tra cui come illustrato, anche il coniuge) siano parti del contratto o se debbano solamente intervenire alla stipulazione del medesimo.
I sostenitori della prima tesi (quella che ritiene i legittimari necessariamente parti del contratto) si basano sulla lettera della norma, che non lascerebbe spazio ad equivoci, nonché sulla funzione essenzialmente divisoria del contratto.
Pertanto, il patto si presenterebbe o come contratto plurilaterale ovvero, più esattamente, come contratto trilaterale, in cui le parti sarebbero rappresentate dal disponente, dall’assegnatario (o dagli assegnatari) e dai legittimari. Non rileva, ai fini della ricostruzione in esame, la circostanza che alcuna delle parti del contratto (vuoi l’assegnatario, vuoi quella dei legittimari) possa essere plurisoggettiva.
In questo caso la manifestazione della volontà dei legittimari è necessariamente frutto di un atto collettivo, con evidenti conseguenze sia in punto di formazione del vincolo contrattuale, sia in punto di scioglimento del medesimo. Identiche osservazioni si possono spendere con riferimento alla parte dei discendenti.
Non rileva neanche la circostanza per cui la nozione del contratto recata dal codice civile non si sofferma su tale precipuo aspetto dovendosi intendere quest’ultima strettamente collegata alla disposizione di cui al comma 2 dell’articolo 768-quater c.c. dove appunto i legittimari vengono indicati come “gli altri partecipanti al contratto” a cui l’assegnatario deve effettuare la liquidazione
Alla luce di ciò, la partecipazione del coniuge e dei legittimari rappresenterebbe un requisito essenziale del contratto, a pena di nullità.
I sostenitori della seconda tesi (quella per cui i legittimari non sono parti ma devono solamente intervenire alla stipulazione del contratto) muovono dall’assunto che il patto di famiglia, così come è delineato nella nozione recata dall’articolo 768-bis c.c., si presenta come un contratto bilaterale dove parti sono il disponente e il discendente o i discendenti assegnatari dell’azienda o delle quote.
A supporto di tale interpretazione si invocano alcuni significativi elementi.
In primo luogo, la summenzionata nozione del contratto, ma anche alcuni dati più specificamente “testuali” che facendo leva sulla partecipazione dei legittimari e non sull’intervento in atto quali parti del contratto negano che a questi ultimi possa essere attribuita tale qualifica.
Tutto ciò posto, ancorché gli altri legittimari non assegnatari non abbiano partecipato, il contratto dovrebbe ritenersi comunque valido ed efficace, atteso che il successivo articolo 768-sexies c.c., come più volte specificato, prevede a favore del coniuge e dei legittimari che risultino tali al momento dell’apertura della successione dell’imprenditore e che non abbiano partecipato al patto la possibilità di chiedere ai beneficiari il pagamento di una somma pari al valore della legittima aumentata degli interessi legali.
Di conseguenza, secondo i sostenitori di questa interpretazione, appare davvero anomalo che soggetti appartenenti ad una stessa categoria (siano o meno quelli menzionati nell’articolo 768-sexies c.c. solo i sopravvenuti), id est i legittimari, assumano la veste di parte in relazione a “… circostanze contingenti …” e non in relazione agli interessi di cui sono portatori.
Di qui l’inquadramento della fattispecie come contratto a favore di terzi e la ricostruzione della vicenda contrattuale in termini di mera partecipazione del legittimario non assegnatario, nel senso che il disponente e l’assegnatario sono (solo) obbligati a convocare ai fini dell’intervento alla stipulazione del patto i diversi legittimari.
In quest’ottica si renderà necessario convocare “formalmente” tutti i legittimari e dichiarare l’avvenuta convocazione nel patto di famiglia, con evidenti ricadute in punto di stabilità degli effetti del patto.
Visto che il patto di famiglia è un atto di straordinaria amministrazione, anche la partecipazione del legittimario avverrà in ossequio delle regole proprie degli istituti a tutela dei diritti dei minori e delle persone prive in tutto o in parte di autonomia.
Nel caso in cui il legittimario sia un soggetto coniugato in regime di comunione legale, la somma
ricevuta a titolo di liquidazione potrà essere considerata allo stesso modo del prezzo ricavato dalla vendita di beni personali ai sensi dell’articolo 179, comma 1, lett. f), c.c. Conseguentemente, non cadrà in comunione legale il bene successivamente acquistato con tale somma, purché tale circostanza sia espressamente dichiarata in atto.
2.5.4 La liquidazione dei legittimari partecipanti al patto e non assegnatari ex articolo 768-quater c.c.
Il comma 2 dell’articolo 768-quater c.c. recita testualmente: “Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli artt. 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura.”
Si tratta, come già anticipato, di una compensazione delle ragioni dei legittimari a fronte dell’assegnazione effettuata dall’imprenditore a favore di uno dei discendenti – o di più discendenti – per realizzare il passaggio generazionale.
I legittimari possono rinunciare alla compensazione, in tutto o in parte, e con la rinuncia si cristallizzano gli effetti della assegnazione da parte del disponente al momento della sottoscrizione.
Il vantaggio che i legittimari conseguono è quello che viene di solito ascritto agli effetti di una successione anticipata rispetto al momento della morte e dunque dell’apertura della successione del disponente: nel patto di famiglia, infatti, i legittimari acquistano il diritto a conseguire anticipatamente la somma a loro riservata dalla legge. Il che significa che, se per un verso l’assegnazione della quota potrebbe essere vantaggiosa in quanto i legittimari al momento di stipulazione del patto conseguono una somma che non necessariamente potrebbero conseguire come tali al momento di apertura della successione del disponente, per altro verso è innegabile che tale somma viene commisurata al valore attribuito alla azienda o alle partecipazioni da trasferire al momento di stipulazione del patto di famiglia.
I legittimari non assegnatari possono rinunziare in tutto o in parte alla liquidazione anticipata, ma non perdono i diritti di successione; la liquidazione della somma, inoltre, può essere dilazionata e la somma versata entro un termine finale espressamente individuato nel patto di famiglia.
Come chiarisce l’ultimo periodo dell’articolo 768-quater, secondo comma, c.c. la liquidazione della somma in denaro può essere sostituita con una liquidazione in natura. Si tratta in altri termini di una datio in solutum ex articolo 1197 c.c., con cui le ragioni dei legittimari non assegnatari vengono tacitate per mezzo del trasferimento di un bene mobile, mobile registrato o immobile il cui valore sia corrispondente alla quota loro spettante calcolata sulla base della perizia di stima del valore dell’azienda o delle partecipazioni che ne rappresenta il parametro di riferimento.
L’articolo 768-quater, terzo comma, c.c., prevede l’ipotesi della liquidazione differita dei legittimari non assegnatari, stabilendo che l’assegnazione dei beni a questi ultimi possa essere disposta anche con un successivo contratto collegato al patto di famiglia, alle condizioni che nel patto di famiglia se ne faccia espressa menzione e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al patto di famiglia o coloro che li hanno sostituiti.
Nel patto di famiglia occorrerà comunque determinare l’oggetto del trasferimento e fornire l’indicazione della somma da liquidare in compensazione di legittima calcolata sulla base di una perizia di stima del valore dei cespiti aziendali o delle partecipazioni, necessariamente allegata al patto medesimo. Nello stesso, poi, dovrebbero essere specificatamente indicati i beni da assegnare successivamente ai partecipanti non assegnatari in alternativa della somma da liquidare in compensazione di legittima e il loro valore e il termine entro cui stipulare il contratto collegato.
Come accennato, la legge limita l’ambito applicativo degli effetti del contratto a quanti hanno partecipato all’originario patto di famiglia o a coloro che in base ad un’intervenuta successione li abbiano sostituiti nella posizione originariamente ricoperta, vale a dire quanti siano legittimari degli originari partecipanti.
In virtù anche del collegamento negoziale che viene espressamente individuato come caratteristica essenziale del nuovo contratto, si ritiene che questo debba presentare gli stessi requisiti di forma prescritti per il patto e, dunque, venir stipulato per atto pubblico.
In ogni caso, tutti i beni che vengono assegnati ai partecipanti non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni, secondo il valore che viene attribuito loro nel patto di famiglia, sono imputati alle quote di legittima spettanti ai partecipanti non assegnatari quando si aprirà la successione del disponente.
La tacitazione delle ragioni dei legittimari deve essere effettuata per espressa previsione della legge dagli assegnatari, previsione criticata da parte di alcuni che hanno evidenziato la circostanza per cui, non raramente, l’assegnatario potrà essere un soggetto giovane, capace ma privo di risorse adeguate a soddisfare il diritto (di credito) vantato dai legittimari. In questo filone si è inserito il ragionamento di quanti ammettono una possibile liquidazione dei legittimari effettuata dal disponente con altri beni. Si tratta, però, di una ricostruzione che non convince appieno poiché in tal modo si verrebbero a sottrarre all’azione di riduzione e alla collazione anche beni ulteriori e differenti rispetto a quelli produttivi.
Da quanto finora esaminato, risulta di una certa evidenza come, ai fini della stipulazione del patto di famiglia, rivestirà particolare importanza la valutazione dei beni oggetto del trasferimento rispetto, valore rispetto al quale andrà calcolata la somma da liquidare ai legittimari non assegnatari. Esigenze di certezza in tal senso sono garantite con l’allegazione al patto di famiglia di una perizia di stima dove vengano esposti criteri e metodi di valutazione oggettivi, adottati per la valutazione dei cespiti aziendali o delle partecipazioni societarie.
La liquidazione dei legittimari, una volta che sia stabilito il valore dell’azienda o delle partecipazioni, si traduce in un semplice calcolo matematico che tenga conto delle quote di legittima previste dalla legge.
Si pensi al classico esempio del trasferimento dell’azienda a favore di un figlio, in presenza del coniuge e di un altro figlio. Per calcolare le quote di legittima dei legittimari non assegnatari, soccorre l’articolo 542, secondo comma, per cui al coniuge spetta ¼ del patrimonio, ai figli la metà del patrimonio. Se il valore dell’azienda oggetto del patto di famiglia fosse di 800.000 euro, l’assegnatario dell’azienda dovrebbe liquidare 200.000 euro, sia al coniuge che al fratello. I restanti 400.000 euro sono idealmente imputati all’assegnatario sia a titolo di legittima che a titolo di disponibile.
Occorre mettere in evidenza, peraltro, come la quota di legittima rappresenti il criterio legale tramite cui calcolare la quota da liquidare ai legittimari, i quali vi possono rinunziare in tutto o in parte. Ne consegue che, previo accordo tra le parti, i legittimari potranno ricevere anche una somma superiore a quella corrispondente alla quota di legittima, senza che ciò rappresenti una liberalità indiretta effettuata dall’assegnatario a loro vantaggio. Anche tale maggior somma soggiace alle regole declinate nell’articolo 768-quater c.c. in forza delle quali quanto ricevuto dal legittimario verrà imputato alla propria quota di legittima al momento di apertura della successione del disponente ma resterà sottratto dall’obbligo di collazione e dall’ambito applicativo dell’azione di riduzione.
2.5.5 L’articolo 768-sexies e i legittimari non partecipanti al patto
Nella ricostruzione dell’istituto e della posizione dei soggetti che vi intervengono sotto diversa veste, assume particolare rilievo la disposizione recata dall’articolo 768-sexies c.c..
La norma prevede che:
“All’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal comma 2 dell’articolo 768 quater, aumentata degli interessi legali.
L’inosservanza delle disposizioni del comma 1 costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell’articolo 768-quinquies”.
Come osservato, l’articolo 768-sexies c.c. rappresenta una norma di chiusura introdotta allo scopo di rendere comunque definitivo l’assetto previsto con il patto di famiglia anche rispetto a quei legittimari che non vi abbiano partecipato.
Aderendo alla tesi per cui il patto di famiglia è un contratto trilaterale, i legittimari cui fa riferimento l’articolo 768-sexies c.c. sono i c.d. legittimari sopravvenuti, vale a dire soggetti diversi da quelli che erano i legittimari al tempo della stipulazione del patto e che per diversi motivi si trovino nella posizione di legittimari al momento dell’apertura della successione (si pensi a un figlio nato dopo la sottoscrizione del patto di famiglia, a un figlio nato al di fuori del matrimonio e riconosciuto dal disponente all’insaputa degli altri legittimari, ovvero a un coniuge sposato successivamente alla stipulazione del patto). In assenza di un adeguato meccanismo compensativo, infatti, questi soggetti potrebbero risultare effettivamente penalizzati dalle precedenti attribuzioni patrimoniali che
l’imprenditore disponente del patto di famiglia abbia effettuato in vita. 27
Per tal motivo, il patto di famiglia dovrà contenere l’impegno dei partecipanti, vale a dire dell’assegnatario e dei legittimari partecipanti non assegnatari, di restare solidalmente responsabili ex articolo 1292 c.c. rispetto alle pretese che un legittimario sopravvenuto potrebbe vantare nei loro confronti ai sensi dell’articolo 768-sexies c.c. Questi soggetti, infatti, sono beneficiari della disposizione attuata tramite il patto, così come della liquidazione in denaro o in natura.
Risulta di una certa evidenza l’importanza della allegazione al patto di una relazione di stima oggettiva del valore dei cespiti oggetto del patto di famiglia anche al fine di non esporre i beneficiari del patto a rivendicazioni eccessivamente onerose da parte dei sopravvenuti i quali, tra l’altro, potrebbero richiedere la rideterminazione del valore periziato.
Nella determinazione della somma da corrispondere ai sopravvenuti, infatti, il legislatore rinvia ai criteri utilizzati per determinare la somma da liquidare ai legittimari non assegnatari in compensazione di legittima aumentata degli interessi legali maturati. La somma da corrispondere ai legittimari, pertanto, verrà calcolata con riferimento al valore dell’azienda o delle partecipazioni stimato al tempo della stipulazione del patto di famiglia, come se i sopravvenuti vi avessero partecipato ab initio. Si tratterà, in via pratica, di ricalcolare le quote di legittima alla luce del mutato contesto di riferimento considerando anche i legittimari sopravvenuti a cui l’assegnatario e gli altri partecipanti dovranno versare la differenza tra quanto percepito al momento della stipulazione del patto e quanto a loro attribuibile a titolo di legittima al momento dell’apertura della successione.
Restando all’esempio di cui sopra (un coniuge, due figli di cui uno assegnatario dell’azienda del disponente), se al momento dell’apertura della successione subentrasse, in quanto legittimario, un figlio nato dopo la conclusione del patto di famiglia, il ricalcolo delle quote di legittima rispetto al valore periziato dell’azienda dovrà essere effettuato, sempre in base alle disposizioni di cui all’articolo 542, secondo comma, c.c. , di modo che la quota di un ½ riservata ai figli dovrà essere divisa tra tre, e non due, fratelli. Ciò comporterà che l’assegnatario e il fratello legittimario non partecipante al patto di famiglia già liquidato al tempo di stipulazione del contratto, saranno tenuti a calcolare il valore di quanto ricevuto in eccedenza e quindi a versare uguale somma al fratello “sopravvenuto” a tacitazione dei suoi diritti.
L’ultimo comma dell’articolo 768-sexies c.c. dispone che l’inosservanza delle disposizioni del comma 1 rappresenta un motivo di impugnazione ai sensi dell’articolo 768-quinquies c.c., vale a dire il patto potrà essere impugnato per uno dei vizi del consenso.
2.6. L’impugnazione del patto di famiglia
L’articolo 768-quinquies c.c. dispone che “Il patto può essere impugnato dai partecipanti ai sensi dell’articolo 1427 c.c. e seguenti. L’azione si prescrive nel termine di un anno”. Dunque, il patto può essere impugnato laddove il consenso di uno dei partecipanti sia stato dato per errore, estorto con violenza o carpito con dolo.
Un elemento di novità rispetto alla disciplina generale di cui agli artt. 1427 ss. c.c. è rappresentato dal termine di prescrizione dell’azione di annullamento del patto che il legislatore della novella individua in uno e non in cinque anni. Si tratta all’evidenza di una disposizione inserita per garantire la stabilità degli effetti del patto di famiglia e limitare la conflittualità tra i partecipanti.
Circa il momento a partire dal quale inizia a decorrere la prescrizione, nel silenzio della legge, si reputa che esso coincida, similmente a quanto disposto dall’articolo 1442 c.c., con il giorno in cui è cessata la violenza, o è stato scoperto l’errore o il dolo. È ammessa la convalida del patto di famiglia annullabile, secondo quanto previsto dall’articolo 1444 c.c.
Come recita la legge, può essere impugnata, ai sensi dell’articolo 768-quinquies c.c., l’inosservanza della disposizione del comma 1 della medesima norma, vale a dire l’inosservanza dell’obbligo ricadente sui condebitori solidali di pagare la somma richiesta dai legittimari sopravvenuti.
Permane in capo ai partecipanti la possibilità di esperire l’azione di risoluzione per inadempimento nel caso in cui l’assegnatario o gli assegnatari non avessero adempiuto all’obbligo di liquidare loro la somma in vece di legittima.
2.7. Lo scioglimento del contratto
L’articolo 768-septies c.c. prevede che il patto di famiglia può essere sciolto o modificato dalle medesime persone che hanno concluso il patto di famiglia nei modi seguenti:
- mediante diverso contratto, con le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti di cui al presente capo;
- mediante recesso, se espressamente previsto nel contratto stesso e, necessariamente, attraverso dichiarazione agli altri contraenti certificata da un notaio.
Il legislatore prevede, dunque:
- la stipula di un contratto differente, con cui si intende sciogliere il precedente patto;
- la modifica del patto di famiglia già stipulato;
- il recesso.
Siffatte modalità condividono un presupposto, vale a dire che siano le stesse medesime persone che hanno concluso il patto a farne istanza. Si tratta, dunque, di coloro che in altre sedi vengono qualificati come partecipanti.
Passando all’analisi della prima delle due differenti ipotesi recate dalla norma in esame, vale a dire quella del “diverso” contratto con cui ci si intenda sciogliere dagli effetti o si desideri modificare il patto di famiglia, si tratta all’evidenza di un’ipotesi di mutuo dissenso, di cui all’articolo 1372 c.c. che contempla, appunto, la stipulazione di un contratto uguale e contrario a quello che si intende eliminare con efficacia ex tunc.
Si tratta di un vero e proprio negozio solutorio tramite il quale viene ripristinata la situazione esistente
in data anteriore alla stipulazione del patto di famiglia. Il nuovo negozio, come impone la legge, deve avere le caratteristiche formali e sostanziali del patto di famiglia. Pertanto, in caso di scioglimento dell’intero contratto tramite un diverso contratto, il disponente ritornerà nel possesso dell’azienda o delle partecipazioni trasferite all’assegnatario e i partecipanti non assegnatari saranno tenuti a restituire a questo ultimo quanto ricevuto a titolo di liquidazione.
In caso di modifiche apportate al patto originariamente stipulato, potranno essere riviste, a titolo d’esempio, le assegnazioni precedentemente stabilite a favore dei legittimari o le eventuali rinunce precedentemente espresse nel patto di famiglia da parte di alcuni legittimari non assegnatari, ovvero mutamenti dell’assegnazione sotto il profilo oggettivo.
Per quanto concerne il recesso, si esclude che la facoltà di recedere sia riconosciuta ex lege, dovendo il contratto prevederlo espressamente e dovendo essere esercitato tramite una dichiarazione certificata da un notaio e rivolta agli altri contraenti. Sarà pertanto opportuno fornire un’adeguata regolamentazione della facoltà di recesso nel patto di famiglia, individuando modalità e termini entro cui il diritto di recesso possa essere esercitato.
Quanto alla prima, presumibilmente una raccomandata con ricevuta di ritorno, che assicura certezza e al contempo non aggrava il procedimento come una notifica tramite ufficiale giudiziario, dovrebbe essere sufficiente.
Quanto al secondo, un limite può essere individuato nella morte del disponente, al verificarsi della quale si apre la successione.
Infine, va considerato se il recesso possa essere opponibile agli aventi causa del o dei beneficiari. Si è suggerito, a tal fine, l’inserimento di una specifica previsione nel contratto che ammetta l’esercizio del diritto e l’opponibilità ai terzi.
Nella prospettiva di individuare alcune soluzioni, si pensi al recesso del disponente. Con l’esercizio del diritto, l’azienda o le partecipazioni trasferite rientrerebbero nella piena disponibilità del disponente; inoltre si verificherebbe lo scioglimento del vincolo contrattuale, in quanto risulterebbe compromesso l’oggetto del patto stesso, e dunque tutti i contraenti da un lato e tutti i legittimari, dall’altro lato, tornerebbero a conseguire quanto trasferito o versato in ottemperanza del patto. Pertanto, il beneficiario sarebbe tenuto a ritrasferire l’azienda o le partecipazioni ma anche a conseguire nuovamente la somma – o i beni – liquidata ai legittimari.
Diversa l’ipotesi del recesso dell’assegnatario.
Anche in questo caso il vincolo contrattuale si scioglierebbe in quanto dal recesso conseguirebbe a carico dell’assegnatario e a favore del disponente la restituzione dell’azienda o delle partecipazioni societarie. In occasione del nuovo trasferimento, però, potrebbe presentarsi l’esigenza di una nuova valutazione del patrimonio aziendale o delle partecipazioni societarie che rispetto al momento in cui il patto è stato concluso potrebbero aver conosciuto un incremento o un decremento di valore dovuti
alle capacità “gestionali” dell’assegnatario medesimo.
Differentemente, a seguito dell’esercizio del diritto di recesso di uno degli altri partecipanti, non si verifica lo scioglimento del contratto, bensì emerge il diritto alla restituzione della somma di denaro maggiorata degli interessi legali – o la retrocessione dei beni assegnati in natura – a titolo di compensazione. Parimenti, verrebbe meno nei confronti del recedente la preclusione dell’esercizio dell’azione di riduzione o della collazione
Laddove a recedere siano tutti i legittimari non assegnatari, ferma restando la restituzione di quanto ricevuto dall’assegnatario a titolo di liquidazione della quota di legittima, verranno a cessare unicamente le eccezionali regole che discendono dalla stipulazione del patto, per cui tali soggetti riacquisteranno la legittimazione attiva ad esperire l’azione di riduzione o il diritto di richiedere la collazione.
2.8. La conciliazione e la risoluzione delle controversie
Da ultimo, l’articolo 768-octies c.c., rubricato precisa che le controversie derivanti dalle disposizioni di cui al presente capo sono devolute preliminarmente a uno degli organismi di conciliazione previsti dall’articolo 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria).
Ne consegue che il legislatore che ha disciplinato il patto di famiglia ha ravvisato nella conciliazione lo strumento maggiormente idoneo per tutelare situazioni di particolare delicatezza quali sono le controversie che potrebbero sorgere all’interno di una stessa cerchia familiare.
Occorre evidenziare, però, che la disposizione è stata di fatto superata con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010 quando le controversie in materia di patto di famiglia sono state attratte nella disciplina della mediazione. Pertanto, chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di patti di famiglia, è tenuto ad esperire preliminarmente il procedimento di mediazione, a condizione di procedibilità della domanda.
SEZIONE III – PROFILI VALUTATIVI (di Matteo Pozzoli)
3.1. La valutazione dell’azienda e delle quote trasferite
La disciplina dei patti di famiglia richiede necessariamente che sia effettuata una valutazione dell’azienda o delle partecipazioni, che rappresentano l’oggetto dell’accordo tra i partecipanti al contratto.
In questa previsione, rileva, anzitutto, evidenziare che il legislatore non ha inteso, come invece in molte
altre occasioni, definire in via convenzionale le modalità tramite cui valutare l’attività valutata.
Risulta, in ogni caso, di tutta evidenza che la stima sia un aspetto tanto cruciale quanto delicato per la corretta riuscita delle finalità ricercate con l’adozione dell’istituto.
Ai nostri fini, giova ricordare che l’articolo 768-quater c.c. ai commi 2 e 3 dispone al riguardo che: “[g]li assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura.
I beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti; l’assegnazione può essere disposta anche con successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti”.
Gli elementi che assumono maggior interesse ai fini valutativi appaiono essere:
- il riconoscimento di una “liquidazione” dell’azienda o delle partecipazioni societarie ai non
assegnatari;
- la previsione che tale riconoscimento debba essere effettuato in base a un “valore” attribuito agli elementi che sono oggetto dell’assegnazione.
In questa prospettiva, sembra essere lasciata massima libertà ai contraenti in merito alla determinazione della valutazione dell’azienda o delle quote trasferite.
Il testo di legge parla, infatti, della determinazione del “valore” delle quote, non considerando che nella tradizione delle valutazioni economiche non esiste un “unico” valore accettabile. Il valore, a differenza di altri concetti quali il “costo” o il “prezzo”, non identifica una grandezza fattuale, motivo per cui la sua stima richiede l’esercizio di un’attività professionale discrezionale, talvolta, alquanto complessa ed articolata.
Al fine di rendere il contratto chiaro ai partecipanti sin dalla sua stesura, è, peraltro, possibile ed auspicabile che siano definiti l’approccio e/o le modalità tramite cui determinare quantitativamente il valore dell’azienda o delle partecipazioni.
In una logica concettuale, sembra utile fornire alcune indicazioni che possono essere considerate quale riferimento per la previsione degli accordi contenuti nel patto di famiglia o che possono rappresentare una base logica di sviluppo per il professionista valutatore.
Per approcciare, quindi, adeguatamente la materia -nella consapevolezza che un’analisi esaustiva della tematica non risulta in questa sede fattibile- appare opportuno che in termini di valutazione siano considerati i seguenti fattori:
- il contesto di riferimento;
- la configurazione di valore ricercata;
- l’unità di valutazione;
- i criteri di valutazione;
- la data della valutazione.
Il contesto di riferimento. Una premessa di base è che le aziende trasferite per il tramite di patti di famiglia sono solitamente rappresentate da aziende familiari di piccole e medie dimensioni. Tale condizione richiede, spesso, nella stima di aziende o quote societarie particolari accortezze.
I Principi Italiani di Valutazione (PIV), emanati dall’Organismo Italiano di Valutazione (OIV), rappresentano ad oggi il riferimento tecnico più autorevole in materia di valutazioni economiche. Le previsioni dei PIV, come gran parte delle indicazioni dottrinali, sono solitamente articolate sulla
valutazione delle società “aperte”. L’adozione delle tecniche valutative deve, in ogni caso, essere modulata in funzione delle attività stimate. Per tali motivi, l’esperto valutatore è chiamato a operare nel contesto in cui l’azienda è inserita, adattando le best practice al contesto di specie.
Configurazione di valore ricercata. Nella prospettiva che l’azienda o le partecipazioni siano riferibili a un complesso economico in funzionamento e che il patto di famiglia è pensato per consentire il passaggio generazionale del patrimonio familiare, la base di valutazione che potrebbe essere adeguata al caso di specie sembra essere rappresentata dal valore intrinseco o fondamentale, noto alla dottrina economico aziendale anche come “capitale economico”.
Il valore intrinseco è definito dai PIV come “…l’apprezzamento che qualsiasi soggetto razionale operante sul mercato senza vincoli e in condizioni di trasparenza informativa dovrebbe formulare alla data di riferimento, in funzione dei benefici economici offerti dall’attività medesima e dei relativi rischi”.
Le motivazioni che spingono a intravedere in tale soluzione la tipologia di valore più adatta sono in buona parte assimilabili a quanto già evidenziato da OIV con riferimento alla valutazione delle azioni su cui viene esercitato il diritto di recesso (art. 2437-ter, comma 2, c.c.; PIV, Parte Quarta, IV.6).
Nel caso in esame, si ritiene che la base del patto non consista nel prevedere un trasferimento di ricchezza da un familiare ad un altro, bensì nel perpetuare l’attività aziendale nel futuro in condizioni tali da trovare una soluzione “equa” per le parti interessate. In questa logica, la mancata partecipazione alla gestione futura non dovrebbe essere configurata dal non assegnatario come una forma alternativa di disinvestimento, bensì come un riconoscimento del valore creato dall’attività familiare sino alla data di efficacia del Patto.
Tale impostazione implica che la valutazione dell’azienda, così come delle partecipazioni, non debba risentire dei condizionamenti che il mercato potrebbe apportare -premesso che in molti casi le realtà che sono valutate non hanno mercati attivi di riferimento- in fase di definizione del prezzo di transazione tra gli ipotetici venditori e gli ipotetici (generici o specifici) acquirenti. Anzi, la finalità del Patto dovrebbe anche essere quella di non introdurre in assoluto l’attività nel mercato, evitando atteggiamenti speculativi tra i familiari.
La possibilità di identificare ab origine, peraltro, il capitale intrinseco come base di valore dovrebbe confortare anche i contraenti sulla possibilità di sottrarre la valutazione alle correnti situazioni di mercato che potrebbero alterare il valore “effettivo” dell’elemento per circostanze congiunturali, svantaggiando alcuni a favore di altri.
Ciò implica, tra le altre cose, che la stima dell’azienda viene effettuata “stand alone”, ossia sulla base delle strategie e dell’operatività corrente, trasferendo -come sembra giusto che sia nella ratio dell’istituto- gli eventuali benefici/svantaggi derivanti dalla gestione futura nelle mani di coloro che avranno il compito di dirigere l’attività nel futuro.
Unità di valutazione. In linea con quanto detto, si ricava anche che l’unità di valutazione, anche con riferimento alla stima delle partecipazioni, sia l’azienda considerata nel suo complesso.
Allo stesso tempo, non dovrebbero essere applicabili, se viene adottata l’impostazione formulata, particolari sconti o premi nella determinazione delle quote. L’adozione di sconti e premi è tecnica con cui solitamente si cerca proprio di riconciliare il valore intrinseco di una quota in valore di mercato.
I criteri di valutazione. I PIV esaminano le seguenti tipologie di valutazione:
- le valutazioni di tipo patrimoniale;
- le valutazioni reddituali;
- le valutazioni che esplicitano le creazioni di valore;
- le valutazioni di tipo finanziario;
- le valutazioni comparative di mercato.
La prassi dispone che non è possibile identificare aprioristicamente i criteri di valutazione (né tantomeno le metodologie operative) ritenuti validi per un determinato cluster di operazioni di valutazione.
Quanto premesso e partendo dalle considerazioni sopra evidenziate, sembra utile formulare alcune considerazioni in merito ai criteri di valutazione che si considerano come derivazione diretta dell’inquadramento concettuale effettuato.
Se sono valide le assunzioni sin qui formulate, sembrano difficilmente applicabili, a meno che l’analisi della realtà specifica non induca a pensare il contrario, le valutazioni comparative di mercato; questo sia perché le dimensioni delle aziende interessate solitamente sono tali da non consentire l’identificazione di un adeguato numero di comparables, sia perché, come detto, l’operazione non ha la finalità di misurare il valore dell’azienda sulla base delle evidenze desumibili dal mercato.
Le altre metodologie possono trovare adozione con i dovuti accorgimenti necessari per perseguire le finalità identificate.
A questo riguardo, è importante valutare l’azienda priva di eventuali condizionamenti “familiari”; nello specifico, le valutazioni che partono dalla proiezione dei flussi (economici o finanziari) dovrebbero, per esempio, considerare, seppur nella logica “stand alone” già richiamata, le condizioni operative esistenti alla data della valutazione depurate da eventuali elementi che rischiano di condizionare la misurazione del valore fondamentale dell’azienda (per esempio, costi abnormali dell’organo di amministrazione dovuti alla presenza di tutti gli appartenenti al nucleo familiare), così anche come appare significativo distinguere i surplus assets dagli elementi strumentali all’attività d’impresa.
La data della valutazione. In ambito valutativo, la data a cui doversi riferire per la stima aziendale non è aspetto irrilevante. Per questo motivo, la data di riferimento della valutazione dovrebbe essere chiara e non creare ambiguità. In ultimo, sarebbe opportuno, non definendo il legislatore alcunché in materia, prevedere che la stima dell’azienda o delle quote sia relazionata a dati non eccessivamente
anteriori rispetto alla data di efficacia del patto. Ciò consentirebbe, laddove possibile e coerente con uno svolgimento appropriato dal punto di vista professionale dell’incarico di valutazione, di ricorrere ai dati finanziari prodotti per la predisposizione dell’ultimo bilancio approvato. Qualora ciò non sia possibile o non appropriato, pare opportuno ricorrere alla predisposizione di un bilancio infrannuale di riferimento.
SEZIONE IV – PROFILI FISCALI
4.1. Premessa (di Viviana Capozzi)
Si è detto che, nel pianificare il passaggio generazionale, il ruolo del Commercialista è fondamentale per l’individuazione degli strumenti che consentono di raggiungere una più efficace e meno onerosa tutela del patrimonio e ciò in un’ottica sia conservativa che trasmissiva.
A questo fine, è opportuna non solo un’approfondita conoscenza tecnica degli strumenti esistenti, ma anche una particolare attenzione alle specifiche esigenze familiari, tenuto conto di tutti gli elementi (non solo patrimoniali ma anche personali) che tipizzano la fattispecie. Nella valutazione complessiva, inoltre, un ruolo non secondario deve essere riservato ad una adeguata comparazione fra il diverso “costo fiscale” e “gestionale” che può comportare l’operazione, in funzione dello strumento prescelto.
Il patto di famiglia è senz’altro uno fra i principali istituti (e probabilmente il più funzionale) che il nostro ordinamento mette a disposizione per realizzare il passaggio generazionale dell’impresa, pianificandolo per tempo, nonché prevenendo l’insorgere di contenziosi fra i discendenti del dante causa.
Come anticipato, tuttavia, la scelta di adottare questo strumento non può prescindere da una attenta valutazione del “costo fiscale” dell’operazione e, quindi, per quanto più da vicino qui ci occupa, dei modelli impositivi applicabili ai fini delle imposte indirette. La corretta individuazione di detti modelli impositivi, tuttavia, è strettamente connessa alla qualificazione (nell’ambito della disciplina civilistica) delle singole attribuzioni realizzate con il patto di famiglia.
Come si è visto nella sezione dedicata alla disciplina civilistica, il patto di famiglia è un atto inter vivos e, infatti, l’effetto traslativo dell’azienda e delle partecipazioni avviene nell’immediato, contestualmente alla stipula del patto. Il patto di famiglia non si sostanzia in una mera indicazione di come l’asse ereditario andrà suddiviso una volta aperta la successione, ma realizza esso stesso il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni dal disponente all’assegnatario.
Nelle diverse opinioni espresse dagli interpreti in ordine a tale istituto, un elemento che non sembra controverso è la natura liberale che caratterizza il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie dal disponente all’assegnatario. Decisamente più discussa appare, invece, la causa sottostante l’atto di liquidazione effettuato da parte dell’assegnatario nei confronti degli altri legittimari.
Le diverse scelte esegetiche operate, in merito alla qualificazione di questo secondo trasferimento, necessariamente si riflettono sulle modalità di tassazione dello stesso a causa della mancanza di una disciplina organica, di natura tributaria, sia con riferimento ai profili di imposizione diretta che indiretta. Il legislatore fiscale, infatti, sino ad oggi si è limitato a dettare una norma di esenzione, ai fini delle imposte indirette, che opera (ricorrendone i presupposti) unicamente con riguardo al trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie. Il restante vuoto normativo va colmato in via interpretativa, riconducendo la fattispecie a modelli impositivi già esistenti, mediante la ricerca di criteri di tassazione non più onerosi di quelli applicabili alla successione mortis causa, per non violare il favor che il legislatore ha manifestato con la scelta di adottare uno strumento atto a favorire una più corretta ed agile pianificazione del passaggio generazionale dell’impresa.
Nelle diverse ricostruzioni sino ad oggi operate dalla dottrina tributaria, per individuare le modalità di tassazione (ai fini delle imposte indirette) dei singoli trasferimenti realizzati nell’ambito del patto di famiglia, da principio è prevalsa l’idea di assimilarlo alla donazione modale. In linea con siffatta ricostruzione, il negozio sarebbe caratterizzato da un’unica causa liberale caratterizzante tutti i trasferimenti patrimoniali realizzati, anche la liquidazione dei legittimari non assegnatari integrerebbe infatti una liberalità che troverebbe causa nel trasferimento d’azienda o delle partecipazioni sociali.
Tale posizione esegetica, tuttavia, non risulta a nostro avviso pienamente condivisibile in quanto nella donazione modale il modus è un elemento accidentale che il dante causa sceglie di apporre alla donazione; mentre, nel patto di famiglia la liquidazione dei legittimari non assegnatari è un obbligo che nasce ex lege al momento della stipula del contratto (vedi paragrafo 2.1).
A questo tipo di interpretazione si contrappongono quanti, pur riconoscendo l’esistenza di una causa liberale che caratterizza l’intero contratto, ritengono necessario (ai fini fiscali) procedere alla qualificazione delle singole attribuzioni, tenendo conto delle diverse posizioni soggettive coinvolte. In linea con questo secondo orientamento interpretativo, dal punto di vista del disponente, il patto di famiglia realizzerebbe due liberalità: una “diretta” nei confronti dell’assegnatario e una “indiretta” nei confronti degli altri legittimari non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni.
Questo secondo orientamento interpretativo, tuttavia, non sembra essere condiviso dalla prassi amministrativa, la quale, con la circolare dell’Agenzia delle entrate del 22 gennaio 2008, n. 3/E ha evidenziato che il patto di famiglia comporta “l’onere in capo a quest’ultimo (il discendente assegnatario, n.d.r.) di liquidare gli altri partecipanti al contratto, in denaro o natura”. L’Amministrazione finanziaria, pertanto, sembra abbracciare le teorie interpretative che ritengono assimilabile alla donazione modale l’istituto in esame.
Tenendo presenti le diverse posizioni manifestate dagli interpreti della disciplina tributaria, si ritiene utile analizzare i modelli impositivi applicabili, ai fini delle imposte dirette e indirette, ai trasferimenti realizzati con il patto di famiglia, evidenziando le diverse soluzioni cui le medesime conducono.
4.2. Imposizione diretta e patto di famiglia (di Valeria Guido)
Relativamente ai profili di imposizione diretta dei trasferimenti effettuati nell’ambito del patto di famiglia, va osservato che il patto di famiglia è inquadrabile come un trasferimento gratuito dell’azienda (o di un ramo di essa) o di partecipazioni.
Il legislatore fiscale ha riservato al trasferimento gratuito dell’azienda un particolare trattamento di favore, prevedendo un regime di “neutralità fiscale”, disciplinato dall’articolo 58 Tuir (rubricato “Plusvalenze”) a mente del quale “il trasferimento di azienda per causa di morte o per atto gratuito non costituisce realizzo di plusvalenze dell’azienda stessa; l’azienda è assunta ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa”.
Il regime fiscale riservato dalla disposizione suddetta ai trasferimenti gratuiti ed in particolare al passaggio generazionale dell’azienda palesa la considerazione degli stessi, nel sistema tributario italiano, come atti e momenti meritevoli di tutela e favore, in quanto preordinati a dare continuità all’attività dell’impresa.
Diverso è infatti il trattamento previsto per il trasferimento oneroso dell’azienda, idoneo a colpire, in capo al cedente, l’eventuale plusvalore fra valore economico e valore contabile del complesso aziendale ceduto.
Nel trasferimento gratuito, l’imposizione è invece neutralizzata e cristallizzata fino all’eventuale momento di successiva cessione ed effettiva realizzazione di plusvalenza da parte del beneficiario, realizzandosi una sorta di differimento temporale dell’imposizione. La previsione di un’immediata tassazione in capo al dante causa (e la verosimile conseguente riduzione delle risorse finanziarie dell’azienda assegnata o personali del disponente) potrebbe rappresentare infatti un grave deterrente all’utilizzo del patto di famiglia, vanificando in parte le ragioni viste sopra, che hanno portato il Legislatore all’introduzione dell’istituto di cui all’articolo 768-bis c.c..
Per quanto sopra, sembra chiaro che, in applicazione dell’articolo 58 Tuir, nessun fenomeno 38
fiscalmente rilevante, sotto il profilo dell’imposizione diretta, può essere ravvisato in capo alla figura del dante causa, essendo la norma di cui sopra estremamente chiara, semplice nella sua formulazione letterale ed essendo altrettanto chiara ed evidente la funzione incentivante ad essa sottesa.
Resta da valutare a questo punto la posizione degli altri soggetti coinvolti nel patto di famiglia.
4.2.1. Il trattamento fiscale in capo al beneficiario del patto di famiglia
In base alla disciplina codicistica, il patto di famiglia rappresenta un contratto che, in via anticipata rispetto alle disposizioni successorie, permette di evitare la disgregazione dell’azienda o delle partecipazioni societarie in sede ereditaria, mediante la possibilità (in deroga al divieto di cui all’articolo 458 c.c.) di assegnare l’azienda di famiglia, o uno o più rami di essa, a soggetti ritenuti capaci di assicurarne la continuità, garantendo la salvaguardia della produttività e la tutela delle risorse occupazionali.
In virtù di tale patto quindi, uno o più discendenti acquisisce l’azienda familiare (o un ramo di essa), oppure le partecipazioni societarie del dante causa, conseguendo a titolo gratuito un incremento del proprio patrimonio personale.
La questione della rilevanza fiscale di tale accrescimento patrimoniale in capo al beneficiario è stata più volte affrontata in dottrina (Mauro Tortorelli, Il patto di famiglia e i profili critici dell’imposizione diretta in capo al beneficiario imprenditore, in banca dati mementopiu.it; Simone Carunchio, Patto di famiglia; l’inquadramento tributario e civilistico, Documento FNC del 31 ottobre 2016).
In particolare, si è osservato che, se il beneficiario del patto di famiglia non è un soggetto imprenditore, l’assoggettamento ad imposizione dell’eventuale plusvalenza realizzata debba avvenire solo all’atto della successiva cessione del bene, come reddito diverso, ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lett. h- bis), Tuir. Viceversa, se il beneficiario riveste la qualifica di imprenditore, il valore della liberalità ricevuta può costituire un componente positivo del reddito come sopravvenienza attiva ai sensi dell’articolo 88, comma 3, Tuir e l’imposizione può avvenire già all’atto della determinazione del reddito d’impresa.
Tale interpretazione, nel caso in cui il beneficiario sia un imprenditore, vanifica totalmente la ratio sopra vista dell’articolo 58 d.P.R. n. 917 del 1986, di neutralizzare l’effetto fiscale dell’operazione nel primo passaggio e differire lo stesso all’atto della successiva e solo eventuale cessione dell’azienda beneficiata.
Orbene, occorre a questo punto analizzare attentamente la questione prospettata e verificarne la fondatezza giuridica.
Come noto, ai sensi dell’articolo 88, comma 3, lett. b), Tuir, “… sono inoltre considerate sopravvenienze attive: (…); b) I proventi in denaro o in natura conseguiti a titolo di contributo o liberalità, esclusi i contributi di cui alle lettere g) e h) del comma 1 dell’articolo 85 e quelli per l’acquisto di beni ammortizzabili indipendentemente dal tipo di finanziamento adottato”.
Perché l’azienda (o ramo di essa) o le partecipazioni beneficiate siano attratte nel novero delle componenti positive del reddito d’impresa come sopravvenienze attive ai sensi del menzionato art. 88, è necessario che esse siano acquisite dall’imprenditore beneficiario come “liberalità”. Senza volerci addentrare in questioni squisitamente civilistiche, per un approfondimento delle quali si rinvia alla sezione inerente la disciplina civilistica dell’istituto, in questa sede basti evidenziare come le grandi incertezze interpretative generate nell’ambito del diritto civile (dove l’istituto, introdotto per la prima volta con legge 14 febbraio 2006, n. 55, ha profondamente innovato l’assetto del Titolo IV del Libro Secondo del codice civile) non possono che riverberare sul piano del diritto tributario.
Secondo l’approccio esposto sopra infatti, la qualificazione del patto di famiglia come “atto di liberalità” dovrebbe comportare l’attrazione dei beni trasmessi nell’alveo di cui all’art. 88 ed il relativo assoggettamento al reddito d’impresa, mentre la diversa qualificazione come mero “atto gratuito” renderebbe l’operazione fiscalmente irrilevante.
A tale proposito, va tuttavia menzionato un orientamento dottrinario minoritario, seppur autorevole (G. Falsitta), secondo il quale l’art. 88 annovererebbe tutti gli arricchimenti patrimoniali dell’imprenditore, diversi dai contributi, che non trovino bilanciamento in corrispondenti pesi economici in capo all’imprenditore, a nulla rilevando la differenza, meramente civilistica, fra liberalità ed atti gratuiti).
A ben vedere, al di là della rilevata questione civilistica, l’interpretazione di cui sopra non convince, anche alla luce di alcune indicazioni giurisprudenziali e della stessa Amministrazione finanziaria (ancorché in riferimento a diversi ambiti d’imposta) e per ulteriori ragioni di cui si dirà oltre.
Con riferimento alla prassi amministrativa, va osservato infatti che la circolare n. 3/E del 2008, richiamata dalla circolare 18/E del 2013, ha avuto modo di chiarire che la disciplina del patto di famiglia risponde all’esigenza di “regolamentare il passaggio generazionale delle aziende mediante effetti anticipatori della successione” e che esso resta “caratterizzato dall’intento, non prettamente donativo, di prevenire liti ereditarie e lo smembramento delle aziende o partecipazioni societarie ovvero l’assegnazione di tali beni a soggetti inidonei ad assicurare la continuità gestionale degli stessi.”. Le circolari da ultimo richiamate, quindi, escludono espressamente la natura donativa del trasferimento effettuato dal disponente al beneficiario assegnatario.
In ambito giurisprudenziale, sempre in senso contrario all’orientamento sopra esposto, va rilevato un recente intervento della giurisprudenza di merito. In particolare, si legge nella sentenza della Commissione tributaria provinciale di Matera, 5 dicembre 2017, n.350/2/17, che: “la soluzione della res controversa debba, necessariamente, essere preceduta dall’indagine sulla volontà concretamente perseguita dal legislatore e nel formulare la norma di cui all’art. 768 bis cod. civ. e nel prevedere il particolare trattamento ai fini fiscali dal patto di famiglia. Con la previsione contenuta nell’art. 768 cod. civ. il legislatore ha inteso facilitare il passaggio di aziende al fine di evitare le liti ereditarie e, perciò, lo smembramento delle stesse. Se tale è l’intento perseguito dal legislatore, allora, appare corretta la previsione secondo la quale l’imprenditore cedente sia esentato dal pagamento dell’imposta sulla
plusvalenza generata dalla cessione dell’azienda; ma, al pari appare corretto (altrimenti verrebbe
vanificato l’intento del legislatore) riconoscere analoga esenzione al soggetto beneficiario della cessione, essendo – per tale ragione – assolutamente irrilevante la qualifica (imprenditore o meno) di cui può essere già in possesso.”.
Inoltre, con specifico riferimento alla fattispecie sub iudice, il Collegio giudicante ha correttamente evidenziato che l’attività ceduta “non risulta essere stata direttamente incamerata nel patrimonio dell’imprenditore; sotto tale aspetto risultando rilevante quanto precisato dal contribuente e, cioè, che l’azienda ricevuta in data 12/9/2012 era confluita, dapprima nella propria sfera personale e successivamente, in data 19/12/2012 (data di inizio dell’attività di commercio elettronico al dettaglio di articoli per fumatori) nel patrimonio aziendale.”.
Tale ultimo dato appare, a nostro avviso, elemento dirimente per la disapplicazione della disposizione recata dall’articolo 88, comma 3, Tuir, in materia di sopravvenienze attive. Ovvero, al di là della particolare qualificazione giuridica civilistica che si scelga di attribuire al patto di famiglia, sotto un profilo squisitamente fiscale, è molto più significativa la circostanza che il bene ricevuto dal beneficiario imprenditore venga da subito attratto, anche per connessione oggettiva, nel complesso aziendale. Se, viceversa, il bene fosse annesso al patrimonio dell’impresa solo indirettamente e per via mediata, magari a titolo di mera disponibilità aziendale non direttamente produttiva di reddito tipico (come bene meramente patrimoniale, per esempio), difficilmente potrebbe essere sostenuta l’ascrivibilità dell’incremento patrimoniale nel novero delle componenti positive di reddito.
In ogni caso, alla luce dell’orientamento interpretativo sopra segnalato, è doveroso rilevare il pericolo che gli uffici periferici recepiscano tale indicazione e, in sede di accertamento del reddito d’impresa, assoggettino ad imposizione diretta, come maggiore componente positiva di reddito, gli incrementi patrimoniali acquisiti dall’imprenditore con il patto di famiglia e che possa discenderne un contenzioso tributario. In tale circostanza, ferma restando l’alea della vicenda giudiziaria, sarebbe comunque opportuno invocare la non applicabilità delle sanzioni, in virtù del principio di cui agli articoli 8 del D. Lgs. n. 546 del 1992 e 10, comma 3, L. n. 212 del 2000, per manifesta ed obbiettiva incertezza interpretativa sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma.
Quanto sopra, è bene ricordarlo, si riferisce esclusivamente alla posizione del beneficiario imprenditore, non essendovi dubbio alcuno sull’applicabilità del principio di neutralità fiscale di cui all’articolo 58 Tuir al beneficiario non imprenditore.
Ferme restando le considerazioni che precedono, in ordine alla neutralità fiscale del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni, si ritiene opportuno svolgere qualche considerazione sui modelli impositivi applicabili ai plusvalori eventualmente emergenti in capo al discendente assegnatario, nel momento in cui questo decida di alienare a terzi l’azienda o le partecipazioni ricevute con il patto di famiglia.
Posto che il trasferimento d’azienda o delle partecipazioni avviene in regime di neutralità fiscale, i plusvalori maturati in capo al beneficiario assegnatario sono destinati ad emergere al momento del successivo trasferimento a terzi o come redditi diversi, se l’assegnatario con la vendita cessa l’attività d’impresa (ai sensi di quanto disposto dall’articolo 67, lett. h-bis), c) e c-bis), Tuir), oppure come componente positiva del reddito d’impresa, se l’attività prosegue anche dopo la cessione a terzi dell’azienda ricevuta in regime di neutralità fiscale.
Le due ipotesi generano effetti non del tutto sovrapponibili. Infatti, nell’ipotesi in cui la plusvalenza realizzata sul complesso aziendale venga tassata come reddito diverso, anziché all’interno del regime d’impresa, l’eventuale cessione a titolo gratuito e destinazione all’autoconsumo non rappresentano fattispecie imponibili e, inoltre, non integrando plusvalenze d’impresa, non sono rateizzabili; invece, nell’ambito del regime dell’impresa e nella prospettiva della sua continuità, l’estromissione del ramo d’azienda, a qualunque titolo, genera un fenomeno fiscalmente rilevante, con possibilità di spalmare la plusvalenza tassabile nel tempo, ai sensi dell’articolo 86 Tuir.
Fermo restando quanto precede, nella determinazione del plusvalore imponibile in capo all’assegnatario, assume estrema rilevanza stabilire se il valore che l’assegnatario ha liquidato (in denaro o in natura) ai legittimari non assegnatari al momento della realizzazione del patto di famiglia (e, quindi, al fine di poter acquisire l’azienda dal suo dante causa) vada o meno considerato un “costo di acquisto” deducibile ai fini del calcolo della plusvalenza imponibile.
In senso contrario alla possibilità di considerare come un costo le somme liquidate dall’assegnatario ai legittimari non assegnatari sembra militare la prassi amministrativa. Infatti, con riferimento ai trasferimenti effettuati nell’ambito del patto di famiglia, l’Agenzia delle entrate ha evidenziato che il trasferimento “non comporta il pagamento di un corrispettivo da parte dell’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni sociali, ma solo l’onere in capo a quest’ultimo di liquidare gli altri partecipanti al contratto, in denaro o natura” (circolare n. 3/E del 2008 e, in senso analogo, si è successivamente espressa anche la circolare n. 18/E del 2013). Tali affermazioni, seppur rese in materia di imposte indirette, sembrerebbero escludere la natura (anche solo parzialmente) onerosa della liquidazione effettuata dal legittimario assegnatario nei confronti degli altri legittimari.
Siffatto orientamento interpretativo, tuttavia, ci sembra non dia la giusta rilevanza al fatto che la liquidazione delle quote spettanti ai legittimari non assegnatari non è qualificabile come un “onere” posto in capo all’assegnatario, bensì il medesimo integra un “obbligo” normativamente stabilito al fine di realizzare il patto di famiglia. In tale stato di cose, risulta difficile immaginare come detta liquidazione non rappresenti di fatto un “costo” sostenuto dall’assegnatario al fine di conseguire il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni.
4.2.2. La posizione dei legittimari non destinatari; l’irrilevanza fiscale della liquidazione
ricevuta
In base a quanto detto sopra, nessuna rilevanza reddituale dovrebbe essere attribuita ai beni trasferiti dal discendente assegnatario ai legittimari non assegnatari a titolo di liquidazione della rispettiva quota di legittima (sia che detta liquidazione avvenga in natura, sia che avvenga in denaro), principalmente perché detto trasferimento non è riconducibile ad alcuna delle categorie reddituali di cui all’articolo 6 Tuir.
Viceversa, la successiva ed ulteriore cessione dei beni ricevuti a titolo di liquidazione della quota di legittima potrebbe generare plusvalenze fiscalmente rilevanti nel caso in cui l’eventuale liquidazione in natura sia avvenuta mediante il trasferimento di beni plusvalenti. Al verificarsi di tale ipotesi, troveranno applicazione, ove ne ricorrano i presupposti, gli articoli 67 e 68 Tuir.
Volendosi soffermare sul primo passaggio, cioè sulla fase di arricchimento ed accrescimento del patrimonio personale dei legittimari non assegnatari, la fattispecie esaminata offre lo spunto per una breve riflessione sul “sistema dell’imposizione reddituale” accolto dal Legislatore fiscale italiano, che fra le varie possibili definizioni di reddito tradizionalmente annoverate (reddito-consumo, reddito- entrata, reddito-prodotto), sembra aver tendenzialmente recepito quella di reddito “prodotto”, cioè valutato in relazione alla relativa fonte di provenienza.
Anche la dottrina più aperta ad accogliere ulteriori nozioni di reddito (G. Falsitta), ha comunque precisato che, preso atto della progressiva tendenza del Legislatore italiano ad assoggettare ad imposizione fiscale forme di reddito-entrata, la relazione intercorrente fra un reddito imponibile e la sua fonte può efficacemente essere descritta come la “minima efficacia condizionalistica” dell’azione umana verso il risultato di arricchimento, nei cui confronti la detta azione assurge a “condicio sine qua non” e ne determina l’imputabilità al soggetto e la tassabilità con imposta sul reddito.
In ogni caso, la tendenziale e indiscutibile apertura del Legislatore verso forme specificamente elencate di tassazione di reddito-entrata, non implica l’abbandono del tradizionale orientamento verso una definizione di reddito come reddito-prodotto, che è un principio evidentemente sotteso anche alla classificazione delle forme di reddito in sei categorie ben individuate dall’articolo 6 Tuir.
Come anticipato, è del tutto evidente che l’arricchimento conseguito dai legittimari non assegnatari del patto di famiglia, come quello dell’assegnatario non imprenditore, non è ascrivibile ad alcuna fonte produttiva di reddito e non è infatti annoverabile in alcuna delle sei categorie reddituali del Tuir.
Per concludere, anche l’analisi sistemica dell’imposizione reddituale conferma che l’attribuzione all’assegnatario non imprenditore ed ai legittimari non assegnatari non genera alcun fenomeno fiscalmente rilevante proprio perché la particolare natura di tale liquidazione non consente di ricondurla ad alcuna delle categorie di reddito disciplinate dall’art. 6 Tuir.
Tale dato impone di tornare a svolgere qualche considerazione in merito alla possibilità di considerare la liquidazione dei legittimari non assegnatari come un costo fiscalmente rilevante in capo all’assegnatario, al momento della cessione a terzi dell’azienda o delle partecipazioni ricevute.
Infatti, quanti escludono il riconoscimento di detto costo in capo all’assegnatario, fondano la propria teoria anche sull’irrilevanza reddituale di tale componente, in capo ai non assegnatari. Infatti, esigenze di simmetria fiscale imporrebbero, al fine di evitare un salto di imposta, di non considerare come costo deducibile in capo al soggetto erogante dei valori che risultano essere delle entrate non imponibili in capo ai beneficiari.
4.3. Imposizione indiretta e patto di famiglia (di Viviana Capozzi)
Il primo e più importante trasferimento che si realizza con il patto di famiglia è quello dell’azienda o delle partecipazioni, vale a dire il trasferimento deputato a realizzare il passaggio generazionale dell’impresa. La finanziaria del 2007, modificando il Testo Unico dell’imposta sulle successioni e donazioni, ha ricondotto tali trasferimenti fra quelli esenti da imposta, al verificarsi di determinati presupposti (articolo 3, comma 4-ter, d.lgs. n. 346 del 1990).
In particolare, nell’ipotesi di aziende o rami d’azienda, perché il trasferimento dal disponente al legittimario assegnatario avvenga in regime di esenzione, è necessario che:
- l’assegnatario subentri nella conduzione dell’impresa e ne prosegua l’attività per almeno 5 anni dalla data in cui si è giuridicamente perfezionato il trasferimento dell’azienda o del ramo d’azienda;
- l’assegnatario, al momento della stipula dell’atto di trasferimento, rilasci un’apposita dichiarazione in cui attesti la sua volontà a proseguire, per almeno un quinquennio, l’attività d’impresa oggetto dell’azienda.
Nella diversa ipotesi in cui oggetto del trasferimento siano azioni o quote di società di capitali, il
beneficio dell’esenzione dall’imposta sulle successioni e donazioni si applica se:
- le quote sociali o le azioni trasferite consentono al soggetto destinatario dell’atto liberale di acquisire o integrare il controllo della società, così come definito dall’articolo 2359, comma 1, punto 1), c.c., vale a dire maggioranza dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria (si evidenzia che il requisito del controllo, è espressamente richiesto ai soli fini dell’applicabilità dell’agevolazione fiscale, non rientrando fra i presupposti fissati per la validità del negozio giuridico dalle norme codicistiche);
- il controllo viene mantenuto per almeno cinque anni;
- l’assegnatario rilascia, all’atto del trasferimento, apposita dichiarazione in tal senso.
Con riferimento alla condizione di continuità quinquennale, si deve evidenziare che, nel caso in cui il patto di famiglia abbia ad oggetto il trasferimento di un’azienda, la norma richiede semplicemente la prosecuzione, per almeno 5 anni, nella gestione dell’impresa. Di conseguenza, per evitare la decadenza dal beneficio, sembrerebbe sufficiente che sia garantita la continuità aziendale, risultando, così, irrilevante l’eventuale sopravvenienza di mutamenti nella titolarità della gestione dell’azienda.
È ragionevole, pertanto, ritenere che non decadano i benefici fiscali se, nel corso dei 5 anni successivi al trasferimento, la società eventualmente costituita tra i discendenti assegnatari dell’azienda si scioglie e l’attività d’impresa continua ad essere svolta da uno solo di essi. Similmente, non dovrebbe determinare decadenza dal regime di esenzione l’ipotesi in cui il discendente assegnatario, prima che sia decorso il quinquennio, decide di conferire l’azienda o le partecipazioni ricevute in una società da lui controllata.
In tal senso si è espressa anche l’Amministrazione finanziaria con la circolare n. 3/E del 2008. In
particolare, il cennato documento di prassi, riprendendo le considerazioni già svolte nella risoluzione n. 341/E del 2007, ha chiarito che il conferimento dell’azienda ricevuta mediante il patto di famiglia non comporta automaticamente la decadenza dal beneficio dell’esenzione.
Infatti, al verificarsi di determinate condizioni, detto conferimento può essere assimilato alla prosecuzione dell’attività d’impresa. La continuità quinquennale, per esempio, è sicuramente ravvisabile tutte le volte che l’azienda viene conferita in una società di persone, a prescindere dal valore della partecipazione ricevuta in cambio dal conferente. Del resto, ai sensi del comma 4-ter dell’articolo 3 d.lgs. n. 346 del 1990, il requisito del controllo si applica esclusivamente ai trasferimenti aventi ad oggetto quote di partecipazione in società di capitali, pertanto non si ritiene necessario verificarne la sussistenza in capo al conferente, nel caso in cui la conferitaria sia una società di persone.
Viceversa, nel caso in cui il conferimento sia effettuato nei confronti di una società di capitali, prima che siano decorsi cinque anni, la decadenza dal beneficio dell’esenzione si verifica ogni qual volta le azioni o quote assegnate al conferente non gli consentano di conseguire o integrare il controllo della società conferitaria, ai sensi dell’articolo 2359, comma 1, n. 1), c.c.. Infatti, in tal caso, non può ritenersi che l’assegnatario prosegua l’esercizio dell’attività d’impresa dopo il conferimento e l’interruzione dell’esercizio dell’attività d’impresa prima che siano decorsi cinque anni dal trasferimento dell’azienda comporta la decadenza dal beneficio.
Inoltre, non dovrebbero comportare la decadenza dal beneficio in esame i casi in cui la continuità quinquennale non si realizzi per fatti non imputabili alla volontà dell’erede (per esempio, la morte del discendente assegnatario, prima che siano decorsi cinque anni dal trasferimento). Mentre, se l’assegnatario, prima che siano decorsi 5 anni dal trasferimento dell’azienda, decide di cederne un ramo, la decadenza dal beneficio si verifica limitatamente al ramo d’azienda ceduto, sempreché, relativamente alla parte d’azienda non trasferita, venga proseguito l’esercizio dell’attività d’impresa (circolare n. 3/E del 2008 e, in senso analogo, circolare n. 18/E del 2013).
La circolare n. 3/E del 2008, inoltre, ha offerto importanti chiarimenti anche con riferimento alle ipotesi in cui nel quinquennio si verifichino delle operazioni straordinarie che coinvolgono l’azienda trasferita.
In tal caso, il requisito della prosecuzione quinquennale dell’attività d’impresa può intendersi assolto nelle seguenti ipotesi:
- operazioni che diano origine a società di persone, ovvero incidano sulle stesse, a prescindere dal valore della quota assegnata al socio;
- operazioni che diano origine, ovvero incidano su, società di capitali, purché il socio mantenga o integri una partecipazione di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, comma 1, n. 1), c.c..
In base ad una analisi testuale della norma di riferimento, appare irrilevante che il requisito del controllo sia integrato già in capo al disponente, ai fini dell’applicabilità del regime esonerativo in esame. Può darsi, infatti, che il disponente trasferisca all’assegnatario delle quote partecipative che, insieme con altre già detenute dall’assegnatario, consentono a quest’ultimo di integrare una partecipazione di controllo nella società di capitali (controllo non riscontrabile in capo al disponente,
in base alle sole quote partecipative in suo possesso).
Sotto il profilo soggettivo, va osservato che l’ambito di applicazione dell’esenzione di cui all’articolo 3, comma 4-ter, d.lgs. n. 346 del 1990 è stato ampliato dall’articolo 1, comma 31, l. n. 244 del 2007 (la Finanziaria per il 2008), che ne ha esteso gli effetti anche al trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni effettuato a favore del coniuge dell’imprenditore o del possessore delle partecipazioni.
Tuttavia, in tal caso, sarà necessario che il passaggio generazionale avvenga mediante istituto diverso dal patto di famiglia. L’articolo 768-bis c.c., infatti, riserva l’utilizzo del patto di famiglia ai soli “passaggi generazionali” e, quindi, ai soli trasferimenti di aziende o partecipazioni effettuati nei confronti dei discendenti dell’imprenditore.
4.3.1. Segue: i modelli impositivi operanti in caso di inapplicabilità del regime di esenzione
Se i presupposti fissati per l’applicazione della norma di esenzione non sono integrati, al trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni si applica l’imposta di donazione e successione in misura ordinaria.
In proposito, va innanzi tutto ricordato quanto anticipato in premessa: vale a dire che, secondo l’Amministrazione finanziaria, il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni integra una liberalità diretta dal disponente all’assegnatario. Una liberalità distinta e autonoma da quella realizzata dal discendente assegnatario nei confronti dei legittimari non assegnatari all’atto della liquidazione delle quote di legittima loro spettanti (in tal senso, da ultimo, anche la circolare n. 18/E del 2013).
Stando a questa ricostruzione dell’istituto, in mancanza dei presupposti per fruire del regime di esenzione, il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni sconta l’imposta di successione e donazione in base alle aliquote e alle franchigie riferibili al rapporto di parentela esistente fra disponente ed assegnatario.
Similmente, i trasferimenti che si realizzano all’atto della liquidazione, da parte del discendente assegnatario, delle quote di legittima spettanti agli altri legittimari, sconteranno l’imposta sulle successioni e donazioni in funzione del rapporto di parentela esistente fra l’assegnatario e gli altri legittimari. Sotto il profilo della determinazione della base imponibile, inoltre, questa è data nel primo trasferimento, dal valore complessivo dell’azienda o delle partecipazioni trasferite, nel secondo dal valore della liquidazione effettuata a favore dei legittimari non assegnatari.
Adottando un diverso orientamento interpretativo e, quindi, ipotizzando di qualificare i due trasferimenti (quello effettuato dal disponente nei confronti dell’assegnatario e la liquidazione, da parte di quest’ultimo, degli altri legittimari) come due liberalità, entrambe effettuate dal disponente, una diretta nei confronti dell’assegnatario e una indiretta nei confronti degli altri legittimari (mediata attraverso l’assegnatario), variano sensibilmente i modelli impositivi applicabili alla fattispecie.
In questo caso, in primo luogo varierebbero le aliquote d’imposta e le eventuali franchigie applicabili ai due trasferimenti: le medesime, infatti, andrebbero in questa seconda ipotesi individuate in base ai rapporti di parentela o coniugio esistenti fra il disponente e i suoi legittimari per entrambi i
trasferimenti.
4.3.2. Segue: la liquidazione dei legittimari non assegnatari
Sempre con riferimento alla liquidazione dei legittimari non assegnatari, si osserva che, in base alla disciplina codicistica, detta liquidazione può avvenire non solo in denaro, ma anche in natura e, quindi, potrebbe essere realizzata anche mediante il trasferimento di aziende o partecipazioni sociali (ovviamente diverse da quella ricevuta dal disponente). In tal caso, se se ne verificano i presupposti di legge, anche per questo secondo trasferimento, può trovare applicazione il regime di esenzione di cui all’articolo 3, comma 4-ter, d.lgs. n. 346 del 1990.
In proposito, la circolare n. 3/E del 2008 afferma che l’esenzione, di cui al comma 4-ter dell’articolo 3 d.lgs. n. 346 del 1990, “si applica esclusivamente con riferimento al trasferimento effettuato tramite il patto di famiglia, e non riguarda anche l’attribuzione di somme di denaro o di beni eventualmente posta in essere dall’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni sociali in favore degli altri partecipanti al contratto”. Ciò nonostante, a nostro avviso, siffatta affermazione non va intesa nel senso di escludere a priori la possibilità di effettuare in regime di esenzione anche la liquidazione dei legittimari non assegnatari. L’inciso richiamato sembra, piuttosto, rispondere alla volontà di escludere che la liquidazione dei legittimari non assegnatari sia automaticamente considerata esente, per il semplice fatto di essere intervenuta nell’ambito di un patto di famiglia (e quindi a prescindere dalle modalità con le quali detta liquidazione viene effettuata).
Inoltre, se la liquidazione dei legittimari non assegnatari avviene mediante il trasferimento di beni immobili, oltre all’imposta di successione e donazione, sono dovute anche le imposte ipotecarie e catastali.
In relazione a queste ultime è utile ricordare che, ai sensi di quanto disposto dagli articoli 1, comma 2, e 10, comma 2, d.lgs. n. 347 del 1990, non sono soggette alle imposte ipotecarie e catastali le formalità relative ai trasferimenti di cui all’articolo 3 d.lgs. n. 346 del 1990. Pertanto, se il trasferimento oggetto di tassazione usufruisce, ai fini dell’imposta sulle donazioni e successioni del regime di esenzione, anche le imposte ipotecarie e catastali non troveranno applicazione.
Infine, se il trasferimento immobiliare avviene a favore di un soggetto in possesso dei requisiti e delle condizioni previste per l’acquisto della prima abitazione, le imposte ipotecarie e catastali, ovviamente, si applicheranno in misura fissa.
In base a quanto disposto dal comma 2 dell’articolo 768-quater, c.c., l’obbligo di liquidare le quote spettanti agli altri legittimari non assegnatari può venir meno (in tutto o in parte) solo nell’ipotesi in cui questi ultimi vi rinuncino espressamente. Anche l’ipotesi della rinuncia dei non assegnatari alla propria liquidazione produce diversi effetti fiscali a seconda che si adotti l’interpretazione manifestata dalla prassi amministrativa o una diversa ricostruzione dell’istituto.
Infatti, se si condivide la qualificazione del patto di famiglia come una liberalità diretta nei confronti dell’assegnatario e indiretta nei confronti degli altri legittimari, la rinuncia di questi ultimi determinerebbe un accrescimento del valore (e quindi della base imponibile) della liberalità effettuata dal disponente a favore dell’assegnatario, essendo venuto meno il vincolo per quest’ultimo di liquidare gli altri legittimari. Viceversa, se si considerano i due trasferimenti come due distinte e autonome liberalità, la rinuncia dei non assegnatari comporta esclusivamente il venir meno di un trasferimento e della sua relativa tassazione.
Coerentemente con la tesi adottata dall’Amministrazione finanziaria, la circolare n. 3/E del 2008 ha affermato che la rinuncia dei legittimari non assegnatari alla liquidazione della propria quota di legittima “non ha effetti traslativi ed è, quindi, soggetta alla sola imposta di registro in misura fissa, dovuta per gli atti privi di contenuto patrimoniale (articolo 11 della Tariffa, parte prima, allegata al TUR)”.
4.3.3. Segue: gli effetti fiscali dello scioglimento del patto di famiglia
Uno specifico approfondimento, sotto il profilo degli effetti fiscali derivanti ai fini delle imposte indirette, merita l’ipotesi in cui il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni realizzato con il patto di famiglia venga meno in funzione di una clausola risolutiva espressa inserita nel contratto, o in funzione del mutuo consenso delle parti (articoli 768-septies e 1372, c.c.).
Le due fattispecie meritano separata trattazione. Infatti, risultano ancora piuttosto oscillanti gli orientamenti interpretativi manifestati a margine del trattamento fiscale delle ipotesi di risoluzione per mutuo consenso, mentre il tenore letterale del comma 1 dell’articolo 28, d.P.R. n. 131 del 1986 non lascia dubbi in merito alle modalità di tassazione dei trasferimenti che si verificano nelle ipotesi di scioglimento del contratto per clausola risolutiva espressa.
Con riferimento alle ipotesi di risoluzione del contratto il comma 1, dell’articolo 28, d.P.R. n. 131 del 1986 dispone che la medesima è soggetta all’imposta di registro in misura fissa se dipende da clausola o da condizione risolutiva espressa contenuta nel contratto stesso, oppure se è stipulata mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata entro il secondo giorno non festivo successivo a quello in cui è stato concluso il contratto.
Al verificarsi di queste condizioni, la tassazione proporzionale trova applicazione unicamente se per la risoluzione del contratto è stato previsto un corrispettivo e, in ogni caso, si applica esclusivamente sull’ammontare di quest’ultimo (scontando l’aliquota del 3% prevista, in via residuale, per gli atti a contenuto patrimoniale dall’articolo 9 della Tariffa, parte I, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, ovvero lo 0,5%, di cui all’articolo 6 della medesima Tariffa, in presenza di mere quietanze).
In linea con il dato letterale della norma di riferimento, anche la giurisprudenza di legittimità (in tal senso, da ultimo: Cass., 9 marzo 2018, n. 5745 e Cass., 5 ottobre 2018, n. 24506) e la prassi amministrativa (risposta a interpello n. 439 del 2019 e risoluzione n. 91/E del 2016) sono concordi nel ritenere che dette ipotesi scontano unicamente la tassazione in misura fissa (ferma restando
l’eventuale imposta proporzionale sul corrispettivo ove pattuito).
Più discussi ed oggetto di una oscillante evoluzione interpretativa, i modelli impositivi applicabili in ipotesi di scioglimento del contratto per mutuo consenso.
Dopo un iniziale indirizzo orientato ad assoggettare ad imposta di registro in misura proporzionale l’atto di risoluzione per mutuo consenso di una donazione (risoluzione n. 329/E del 2007), con la risoluzione n. 20/E del 2014, l’Agenzia delle entrate, allineandosi a più recenti arresti giurisprudenziali (Cass., 6 ottobre 2011, n. 20445), ha riconosciuto la natura risolutoria e l’efficacia retroattiva di detto atto; concludendo, conseguentemente, per l’applicabilità al medesimo dell’imposta di registro in misura fissa (ai sensi del comma 1 dell’articolo 28, d.P.R. n. 131 del 1986).
In detta sede era stato altresì specificato che, in ogni caso, la risoluzione per mutuo consenso non costituiva presupposto per la restituzione delle imposte corrisposte per il precedente atto di trasferimento e che l’imposta in misura proporzionale avrebbe trovato applicazione unicamente nel caso in cui dalla risoluzione del contratto fossero derivate prestazioni patrimoniali in capo alle parti o si fosse pattuito un corrispettivo.
Più di recente, tuttavia, la prassi amministrativa si è orientata su opposte conclusioni, allineandosi ancora una volta al mutato orientamento giurisprudenziale. Infatti, la Corte di Cassazione, con la sentenza 19 febbraio 2014, n. 3935, ha affermato che lo scioglimento per mutuo consenso di un contratto ad effetti traslativi realizza un nuovo trasferimento di proprietà e con la successiva sentenza 2 marzo 2015, n. 4134 detto scioglimento è stato espressamente qualificato come un nuovo contratto di natura solutoria e liberatoria, con contenuto eguale e contrario a quello del contratto originario.
Facendo seguito alle cennate pronunce giurisprudenziali, l’Agenzia delle entrate, con la risposta a interpello n. 41 del 2019, ha sostenuto l’applicabilità alla fattispecie di quanto disposto dal comma 2 (e non dal comma 1) dell’articolo 28, d.P.R. n. 131 del 1986. Da tale variato orientamento interpretativo, consegue la necessità di liquidare l’imposta in misura proporzionale, anche in assenza di alcuna pattuizione fra le parti in merito ad un corrispettivo.
Siffatta impostazione è stata poi ripresa e ulteriormente approfondita nella risposta ad interpello n. 439 del 2019. In detta occasione, la prassi amministrativa ha richiamato alcune ancor più recenti ordinanze di Cassazione (Cass., 9 marzo 2018, n.5745 e 5 ottobre 2018, n. 24506) a mezzo delle quali è stato fissato il principio secondo il quale solo in presenza di una clausola risolutiva espressa all’interno del contratto è possibile fare riferimento alla tassazione in misura fissa, di cui al comma 1 del più volte citato articolo 28. Nelle altre ipotesi, fra cui la risoluzione per mutuo consenso, troverà applicazione quanto previsto dal successivo comma 2 della medesima disposizione.
Sostiene, infatti, l’Agenzia delle entrate che il mutuo consenso è occasione del manifestarsi della stessa capacità contributiva espressa da un contratto a parti inverse (un retro contratto), talché, al di là dell’eccezione che il legislatore ha inteso stabilire con il disposto di cui al comma 1 dell’articolo 28, il mutuo consenso deve essere assoggettato, ai sensi del successivo comma 2, all’imposta di registro in misura proporzionale (in senso analogo anche la risposta a interpello n. 443 del 2019).
Questi i più recenti orientamenti interpretativi manifestati dalla prassi e dalla giurisprudenza di legittimità. Tuttavia, l’oscillazione delle posizioni in merito assunte dagli interpreti lascia auspicare un intervento normativo volto a fissare con stabile certezza il trattamento impositivo cui assoggettare l’eventuale retrocessione dell’azienda o delle partecipazioni trasferite con un patto di famiglia, in seguito annullato per mutuo consenso.
In attesa di siffatto intervento normativo, si sottolinea l’importanza di valutare l’opportunità ai fini fiscali di inserire, all’interno del patto di famiglia, apposita clausola risolutiva espressa, così da scontare un regime fiscale certo e comunque meno gravoso, in caso di successivo scioglimento del contratto.
4.3.4. Segue: gli effetti fiscali dell’eventuale liquidazione dei legittimari non assegnatari da
parte del disponente
Un esame a parte merita la diversa ipotesi in cui sia il disponente (e non il legittimario assegnatario) a liquidare gli altri legittimari. In tal caso, dovrà essere stata inserita nel patto di famiglia una clausola espressa di adempimento da parte di un terzo, ai sensi di quanto disposto dall’articolo 1180, c.c., finalizzata a dare atto del fatto che il discendente assegnatario provvederà alla liquidazione dei legittimari non assegnatari attraverso l’adempimento del disponente. In mancanza di tale clausola, non sarà possibile superare l’espresso dettato normativo che, come si è visto nell’ambito della sezione dedicata ai profili civilistici dell’istituto, riserva al solo assegnatario l’obbligo di liquidare le quote di legittima spettanti ai legittimari non assegnatari.
Sotto il profilo fiscale, è opportuno evidenziare che la liquidazione dei legittimari non assegnatari mediante l’adempimento di un terzo potrebbe determinare una doppia tassazione, non essendo rinvenibile nel nostro ordinamento un principio generale di alternatività tra l’imposizione indiretta riferita al “negozio mezzo” e l’imposizione riferita al “negozio fine”.
In sostanza, in presenza di questa fattispecie, una liquidazione in linea con l’orientamento interpretativo manifestato dalla prassi amministrativa (che vede nei due trasferimenti il realizzarsi di due distinte e autonome liberalità), renderebbe applicabile l’imposta sulle donazioni e successioni sia alla liberalità diretta eseguita dal discendente assegnatario mediante la liquidazione degli altri legittimari, sia alla liberalità indiretta effettuata dal disponente al legittimario assegnatario provvedendo lui stesso alla materiale liquidazione delle quote spettanti ai legittimari non assegnatari.
In proposito, è utile osservare che l’articolo 1, comma 4-bis, d.lgs. n. 346 del 1990 prevede che “Ferma restando l’applicazione dell’imposta anche alle liberalità indirette risultanti da atti soggetti a registrazione, l’imposta non si applica nei casi di donazioni o di altre liberalità collegate ad atti concernenti il trasferimento o la costituzione di diritti immobiliari ovvero il trasferimento di aziende, qualora per l’atto sia prevista l’applicazione dell’imposta di registro, in misura proporzionale, o dell’imposta sul valore aggiunto.”. Tale disposizione, quindi, esclude da tassazione unicamente le
liberalità collegate ad un negozio a titolo oneroso (che sconti l’imposta di registro o l’IVA) e non anche, come nel caso di specie, quelle collegate ad un negozio a titolo gratuito.
Sul punto, tuttavia, non può che auspicarsi un intervento normativo, atto ad impedire il verificarsi di ipotesi di doppia tassazione del medesimo atto e comunque in linea con la richiamata disposizione di cui al comma 4-bis dell’articolo 1, d.lgs. n. 346 del 1990 in quanto, nel caso di specie, il “negozio fine” sconta comunque una tassazione proporzionale (peraltro anche maggiore di quella che avrebbe trovato applicazione se detto negozio fosse rientrato nell’ambio di applicazione dell’imposta di registro anziché di quella di successione e donazione).
4.3.5. Segue: la liquidazione dei legittimari “sopravvenuti”
Il comma 1 dell’articolo 768-sexies, c.c. prevede che, all’apertura della successione del disponente, il coniuge e gli altri legittimari “che non hanno partecipato al contratto” possono chiedere ai beneficiari del medesimo il pagamento della somma (oltre gli interessi legali) prevista dal comma 2 dell’articolo 768-quater, c.c..
L’obbligazione di liquidare i legittimari (che per comodità definiremo) “sopravvenuti” ricade non solo sull’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni ma, come coobbligati solidali, anche su tutti gli altri legittimari che hanno “beneficiato” del patto di famiglia, ottenendo dall’assegnatario la liquidazione della propria quota di legittima.
Si legge, infatti, nella relazione illustrativa alla disciplina codicistica che: “naturalmente tale diritto potrà essere esercitato nei confronti del solo assegnatario dell’azienda nel caso in cui non vi sia stata liquidazione in favore degli altri legittimari partecipanti al contratto, ovvero nei confronti dei (o anche dei) legittimari partecipanti che abbiano ricevuto la liquidazione di cui ai commi terzo e quarto”.
Con riferimento ai modelli impositivi applicabili alla liquidazione dei legittimari sopravvenuti, si sottolinea che detta liquidazione, qualora avvenga mediante stipula di apposito accordo, è riconducibile alla disciplina di cui all’articolo 43, d.lgs. n. 346 del 1990, riferito, appunto, agli accordi per la reintegra dei diritti dei legittimari.
Tale accordo, infatti, interviene dopo l’apertura della successione del disponente e l’applicazione della disciplina di cui al richiamato articolo 43, d.lgs. n. 346 del 1990 risulta funzionale a evitare una duplicazione d’imposta, rispetto a quella assolta dai coobbligati solidali, con riferimento ai trasferimenti effettuati al momento della conclusione del patto di famiglia.
SEZIONE V – PROFILI COMPARATIVI (di Luigi Gualerzi)
5.1. Patto di famiglia, donazione, successione e trust confronto fra gli istituti
Abbiamo visto nelle sezioni precedenti di questo documento quanto, pur con le problematiche aperte sia in ambito civilistico che fiscale, il patto di famiglia sia uno strumento potente per indirizzare verso l’obiettivo desiderato una situazione di passaggio generazionale in presenza di aziende (sia possedute direttamente dall’imprenditore quanto, molto più frequentemente, attraverso le partecipazioni in un veicolo societario).
Il tema, peraltro, è di grandissima attualità in virtù dell’enorme quantità di aziende, in particolare PMI, ancora guidate dal fondatore (il classico “self made man” che ha fondato l’azienda nella seconda metà del secolo scorso e, segnatamente, nei prolifici anni ’60, ’70 e ‘80) che, tuttavia, per questioni banalmente anagrafiche e biologiche non potrà condurle ancora a lungo.
Ciò nonostante, per motivazioni diverse, esso risulta di fatto poco utilizzato.
In effetti, talvolta, esso è inutilizzabile poiché le condizioni oggettive non lo permettono, ad esempio nel caso in cui i non assegnatari non accettino di sottoscriverlo.
In altri casi, tuttavia, in situazioni in cui sarebbe una strada percorribile con i benefici che ne conseguono, si assiste a un mancato utilizzo solamente per una questione di “inerzia culturale” da parte dei professionisti che affiancano l’imprenditore nell’effettuazione delle sue scelte strategiche, che preferiscono avvalersi di strumenti che ritengono più consolidati e meglio conosciuti, quali, ad esempio, la donazione o addirittura la “debolissima” successione testamentaria.
Conseguentemente, la sua conoscenza approfondita da parte dei medesimi professionisti, è sicuramente importante, oseremmo dire fondamentale, relativamente al ruolo dagli stessi ricoperto.
Di seguito, tratteggiamo gli aspetti fondamentali degli istituti che, in alternativa al patto di famiglia, vengono utilizzati (ma talvolta passivamente subiti) per incanalare giuridicamente il passaggio generazionale, ovvero: norme successorie, donazioni e trust.
Trattandosi di normative troppo complesse per i limitati spazi di questa sede, ci limiteremo ad evidenziare gli aspetti rilevanti per il raffronto col patto di famiglia.
5.2. La successione: profili civilistici
Il tema del destino del proprio patrimonio in relazione all’inevitabile fine della vita è talmente importante e storicamente sentito dalle persone che, oltre a un accenno anche a livello costituzionale (l’ultimo comma dell’articolo 42 Cost. recita: “La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità”) occupa un intero libro, il secondo, dei sei di cui è composto il codice civile.
Gli articoli vanno dal 456 all’809, ma in realtà, in molte altre norme codicistiche, vi sono richiami alla materia e disciplinano una casistica estremamente articolata e complessa, suggerita dall’esperienza di secoli se non di millenni.
5.2.1. Segue: la successione legittima
Viene definita successione legittima quella in cui il defunto non ha lasciato un testamento, oppure questo è dichiarato invalido o, infine, dispone solo per una parte dei beni. In questo caso, a seconda di quali siano i “successibili” effettivamente presenti, la legge si premura di stabilire a chi e in che percentuale debba essere devoluta l’eredità.
I “successibili”, cioè coloro che possono concorrere nella successione, sono (articolo 565 c.c.):
- il coniuge (ai sensi della l. n. 76 del 2016, il partner all’interno dell’unione civile ha gli stessi diritti del coniuge);
- i discendenti (figli, nipoti, pronipoti);
- gli ascendenti (genitori, nonni, bisnonni…);
- i collaterali (fratelli e sorelle);
- gli altri parenti entro il sesto grado (nipoti “ex fratre”, cugini, ecc…);53
- e infine lo Stato.
Gli articoli da 566 a 586 stabiliscono la percentuale che spetta a ciascuno nelle varie situazioni con alcune regole generali:
- la presenza di discendenti esclude dall’eredità ascendenti e collaterali;
- l’assenza di discendenti fa concorrere col coniuge anche gli ascendenti e i collaterali (anche se con percentuali minori);
- se sono eredi il coniuge e un figlio, l’eredità si divide in parti uguali;
- se oltre al coniuge vi sono più figli, al coniuge va un terzo e i due terzi ai figli in parti uguali (qualunque sia il numero dei figli);
- solo in caso di assenza di coniuge, discendenti, ascendenti e collaterali concorrono gli altri parenti entro il sesto grado;
- solo in caso di assenza anche di questi ultimi l’eredità va allo Stato.
5.2.2. Segue: la successione testamentaria
Chiunque sia “capace” (ovvero maggiorenne, non interdetto per infermità mentale e in possesso delle proprie capacità di intendere e volere) può disporre dei propri beni, in tutto o in parte, per quando avrà cessato di vivere, per mezzo di un atto denominato “testamento”. Il soggetto che dà disposizioni sui propri beni a mezzo di “testamento” è detto “testatore”.
Il testamento è un atto sempre revocabile dal testatore che può, in ogni momento, apportarvi modifiche, annullarlo o sostituirlo.
Riguardo alla forma, il testamento può essere:
- pubblico: cioè redatto dal notaio, sulla base delle volontà del testatore e sottoscritto da
quest’ultimo in presenza di due testimoni;
- segreto: redatto dal testatore, anche con mezzi meccanici o da altri per suo conto e consegnato al notaio che si limita a sigillarlo e a raccogliere, in presenza di due testimoni, la dichiarazione del testatore del fatto che quanto consegnato sia effettivamente il proprio testamento;
- olografo: ovvero scritto, datato e firmato, per intero, dal testatore di proprio pugno. Con il testamento, il testatore, può:
- stabilire quali beni spettino a quali eredi operando già, in sostanza, in tutto o in parte, la divisione;
- chiamare all’eredità soggetti, anche totalmente estranei, che non riceverebbero nulla in caso di successione legittima.
Tuttavia, il potere di disporre del testatore non è illimitato in quanto vi sono dei soggetti, definiti
“legittimari” (articolo 536 c.c.) ai quali, comunque, è riservata una quota dell’eredità.
Sono legittimari:
- il coniuge;
- i figli (ovvero i loro discendenti nel caso che i figli siano morti in precedenza);
- gli ascendenti.
Rispetto alla più ampia categoria dei “successibili”, non sono quindi legittimari e, di conseguenza, non vi è alcuna riserva a loro favore: i collaterali, gli altri parenti di qualunque grado e lo Stato.
In sostanza, a parte i casi di indegnità previsti dall’articolo 463 c.c. (che esclude dall’eredità coloro che si siano macchiati di crimini particolarmente gravi nei confronti del testatore o del suo coniuge o dei suoi discendenti o ascendenti), nessuno può “diseredare” i propri legittimari.
Ovvero, a seconda della “qualità” e della “quantità” dei legittimari, il testatore deve riservare ad essi una quota variabile del proprio patrimonio. La quota residua, di cui il testatore può disporre a piacimento, si chiama “quota disponibile”.
Così, ad esempio:
- se l’unico erede legittimario è il coniuge, a esso è riservato il 50% e l’altro 50% rappresenta la quota disponibile;
- se i legittimari sono il coniuge e un figlio, a essi spetta un terzo ciascuno e il residuo terzo rappresenta la quota disponibile;
- se i legittimari sono il coniuge e più figli, al coniuge spetta il 25%, ai figli il 50% da dividere tra di loro e il residuo 25% rappresenta la quota disponibile;
- se unico legittimario è un figlio, a esso spetta il 50% e l’altro 50% rappresenta la quota disponibile;
- se unici legittimari sono più figli, a essi spettano due terzi da dividersi tra di loro e il residuo terzo rappresenta la quota disponibile;
- se unici legittimari sono uno o più ascendenti, a esso (o a essi in concorso) spetta un terzo e due terzi sono la quota disponibile.
Ovviamente la quota disponibile può essere devoluta dal testatore anche a favore di uno o più dei legittimari (ad esempio, se i legittimari sono due figli, il testatore può lasciare il terzo disponibile a uno dei due che, così, avrà in totale due terzi mentre l’altro solo il terzo di legittima).
5.3. La successione: profili fiscali
Se nella fiscalità generale l’Italia si colloca ai primi posti europei e mondiali per carico fiscale imposto ai contribuenti, quando si parla di donazioni o di successioni (le regole generali e le aliquote sono analoghe) invece, gli Italiani possono sicuramente considerarsi fortunati.
Di seguito una tabella riassuntiva delle aliquote attuali dell’imposta di successione (d.lgs. n. 346 del 90) , valide anche per l’ipotesi della donazione:
Rileviamo in primo luogo che si tratta di un’imposta dall’applicazione molto semplice in quanto:
- non prevede una tassazione sul patrimonio globale ma esclusivamente in capo al singolo erede per la sua quota di eredità;
- non prevede aliquote differenziate in relazione all’importo dell’eredità ricevuta (o meglio: prevede “un’aliquota zero” per valori entro la franchigia e un’aliquota unica, come da tabella soprastante, per la parte eccedente).
Vediamo qualche esempio (valido anche, a parità di valori e di gradi di parentela, in ipotesi di donazione):
1) Se un soggetto, morendo, lascia al coniuge e all’unico figlio, in parti uguali, un patrimonio inferiore o uguale a euro 2.000.000, i riceventi non pagheranno nulla essendo il valore interamente coperto dalla franchigia.
2) Se un soggetto, vedovo o divorziato, morendo, lascia l’intero proprio patrimonio di euro 4.500.000 ai 3 figli in parti uguali, questi pagheranno un’imposta di (soli!) euro 20.000 cadauno, quindi euro
60.000 in tutto. Questo perché, ogni figlio, ricevendo un valore di euro 1.500.000, sarà tassato solamente su un’imponibile di euro 500.000 (quota eccedente la franchigia di euro 1.000.000) al 4%. (Lo stesso accadrebbe se i riceventi fossero il coniuge e i 2 figli)
3) Se un soggetto, senza coniuge né figli, morendo, lascia il proprio patrimonio di euro 1.000.000, metà al fratello e metà a persona non legata da vincoli di parentela o coniugio (ad esempio la propria compagna), il fratello, al netto della franchigia di euro 100.000, pagherà un’imposta del 6% su euro 400.000 e quindi euro 24.000; mentre la compagna pagherà l’8% di euro 500.000 e quindi euro 40.000. La tassazione totale, di conseguenza, diventa di euro 64.000.
Agli importi sopra indicati occorre aggiungere un 3% di imposte ipotecarie e catastali sul valore di eventuali immobili che costituiscano parte dell’eredità, in relazione ai quali in capo agli eredi non sussistano le condizioni per l’agevolazione “prima casa”. Quindi nessuna aggiunta se l’eredità è costituita da partecipazioni societarie, beni mobili o altro; un’aggiunta del 3% sul valore degli immobili se ve ne sono.
Senza evidenziare singole ipotesi, rappresentiamo che negli altri paesi europei il carico fiscale, in qualsiasi delle ipotesi, sarebbe maggiore; in ipotesi di legami parentali lontani o assenti e/o in caso di patrimoni importanti, molto maggiore.
Ai nostri fini va inoltre ricordato (vedi la sezione relativa ai profili fiscali) che l’imposta di successione è esclusa (articolo 3, comma 4-ter, d.lgs. n. 346 del 1990), qualunque sia l’importo ereditato (anche oltre la franchigia), quando la successione è a favore (o per la parte che è favore) di propri discendenti o del coniuge, quando ricorrono le seguenti condizioni:
- la successione ha per oggetto aziende, rami di aziende o quote di società di persone se l’erede prosegue l’attività d’impresa per almeno 5 anni dal trasferimento, oppure
- la successione ha per oggetto quote o azioni di società di capitali se, congiuntamente:
– mediante l’eredità di tali quote o azioni l’erede acquisisce (o raggiunge) il controllo della
società;
– l’erede detiene il controllo per un periodo non inferiore a 5 anni.
La previsione, di cui all’articolo 3, comma 4-ter, d.lgs. n. 346 del 1990, è identica a quella applicabile in caso di patto di famiglia ovvero in caso di donazione.
Infine, segnaliamo che dovrebbe essere ormai superata, oltre che dalla dottrina, anche dalla giurisprudenza di legittimità (recentemente: Cass., 23 maggio 2018, n. 12.779 e Cass., 15 gennaio 2019, n. 758, ma anche Cass., 6 dicembre 2016, n. 24.940 e Cass., 16 dicembre 2016, n. 26.050), la posizione dell’Agenzia delle entrate in materia del cosiddetto “coacervo”.
L’istituto del coacervo (paragonabile in ambito fiscale all’istituto della collazione, cui accenneremo infra, in ambito civilistico) era previsto dalla normativa originaria vigente sino al 2000. Esso prevedeva che, al fine di determinare le aliquote (allora progressive e non fisse come ora) applicabili, in sede di successione occorresse sommare al “relictum” l’importo delle donazioni effettuate in vita dal de cuius.
Tale istituto nella normativa vigente non è più previsto anche se l’Agenzia delle entrate, nella circolare n. 3/E del 2008, ha cercato di reintrodurlo ai fini del computo della franchigia.
Vediamo alcuni esempi per meglio comprendere gli effetti fiscali dell’istituto del coacervo: se Tizio, in vita, ha donato al figlio Caio euro 600.000 e alla sua morte la quota di eredità spettante allo stesso Caio fosse di euro 1.500.000, secondo l’Agenzia delle entrate questa sarebbe soggetta all’imposta di successione per euro 1.100.000 poiché la franchigia di euro 1.000.000 sarebbe già stata erosa per euro 600.00 dalla donazione e residuerebbe, quindi, solo per euro 400.000. Secondo la dottrina ampiamente prevalente, ora condivisa anche dalla Suprema Corte, invece, la mancata reintroduzione nel 2006 dell’istituto del coacervo, fa sì che la donazione non sia fiscalmente cumulabile all’eredità, sicché Caio, in sede successoria, gode della franchigia piena di euro 1.000.000 e sarà tassato – al 4% – solo su euro 500.000. In questo caso, l’Agenzia delle entrate vorrebbe applicare il coacervo anche alle donazioni effettuate nel periodo di abrogazione dell’imposta (2001/2006) con una palese violazione del principio di non retroattività dei tributi.
In sede di successione (o donazione) i valori di terreni e immobili assunti ai fini del calcolo sono i valori catastali ovvero: la rendita catastale per i fabbricati o il reddito dominicale per i terreni, moltiplicati per i coefficienti stabiliti dalla Legge.
Ora, è notorio che queste rendite (e di conseguenza questi valori) risultano normalmente ampiamente sottostimati rispetto ai valori reali di mercato e questo è vero persino in questo momento storico che vede i prezzi dei terreni e dei fabbricati, particolarmente depressi.
In particolare, a subire i maggiori aumenti, dovrebbero essere gli immobili nelle grandi città, nei centri storici, nelle aree che più godono di pubblici servizi, ecc…
5.4. La donazione: profili civilistici
Ogni persona, oltre a disporre dei propri beni per il momento in cui avrà cessato di vivere, può, analogamente, disporne mentre è ancora in vita. L’atto con cui può essere esercitato tale diritto è l’atto di donazione e le parti sono: colui che dona detto “donante” e colui che riceve detto “donatario”.
Ai sensi dell’articolo 769 c.c., la donazione è il contratto col quale una parte ne arricchisce un’altra (con ciò distinguendo da altri contratti, come la compravendita, in quanto, in linea di principio non vi è uno scambio, un corrispettivo, ma, a seguito della donazione, il donante si troverà “più povero” e il donatario “più ricco”).
Si noti che è un contratto, non un atto unilaterale e quindi, si perfeziona solamente con l’accettazione, contemporanea o successiva, del donatario.
Si noti altresì che, ai sensi di quanto disposto dall’articolo 437 c.c.: “Il donatario è tenuto, con precedenza su ogni altro obbligato, a prestare gli alimenti al donante”.
Non cambia la natura dell’atto il fatto che esso venga effettuato per riconoscenza del donante nei confronti del donatario (ad esempio: la donazione di un immobile a favore della governante che va in pensione per gratitudine per i servizi resi alla famiglia) ovvero che, assieme alla donazione, venga stabilito un onere a carico del donatario, con la cosiddetta “donazione modale” (ad esempio: la donazione di un immobile alla Parrocchia a fronte dell’onere perpetuo a che venga celebrata annualmente una messa di suffragio per un congiunto defunto; ovviamente l’onere non può avere valore analogo alla donazione, altrimenti, al di là del nomen iuris si è di fronte a qualcosa di diverso da una donazione).
Sotto il profilo della forma, fatte salve le donazioni di modico valore, le donazioni stesse devono essere effettuate per atto pubblico notarile. Il modico valore, per giurisprudenza consolidata, va visto non in assoluto ma con riferimento alla situazione economico patrimoniale del donante.
Questi vincoli di forma non sussistono nel caso di “donazione indiretta” poiché in tal caso è sufficiente rispettare le formalità prescritte per il contratto utilizzato.
Costituiscono donazioni indirette:
- l’intestazione a un soggetto, ad esempio il figlio (donatario), di un immobile che è stato pagato da un altro soggetto, ad esempio il padre (donante);
- la donazione diretta di denaro, ma con onere a carico del donatario di acquistare un determinato
bene;
- l’acquisto di un determinato bene da parte del donatario, con assunzione (accollo) da parte del donante dell’obbligo di pagarne il prezzo ovvero di rimborsare il finanziamento contratto dal donatario con soggetti terzi (ad esempio banche).
Come il testatore, il donante può:
- stabilire a chi destinare, tra i propri eredi, i propri beni, così operando già, in sostanza, in tutto o in parte, la divisione dei beni stessi;
- destinare beni a soggetti anche totalmente estranei.
Come per il testatore, tuttavia, anche il potere di disporre del donante non è illimitato in quanto deve tener conto dei diritti dei legittimari che sono gli stessi già visti per la successione: il coniuge, i figli e gli ascendenti.
Quindi, a seconda della “qualità” e della quantità dei legittimari, anche il donante, a pena di impugnazione degli atti di donazione successivamente al proprio decesso, deve riservare ad essi una quota variabile del proprio patrimonio; destinando diversamente solo la quota residua, ovvero la quota cosiddetta “disponibile”.
In proposito, si osservi che la valutazione sulla lesione o meno della legittima si effettua con riferimento alla data del decesso (vedi infra l’istituto della collazione e l’azione di riduzione).
5.5. La donazione: profili fiscali
L’imposta di donazione, che è carico del donatario, si applica con le stesse aliquote e le stesse
franchigie previste per l’imposta di successione, di cui si è già detto.
Gli atti di donazione sono soggetti a registrazione in termine fisso, con applicazione dell’imposta con aliquota fissa solamente se il valore della donazione supera quello dell’eventuale franchigia.
Nel caso di donazioni indirette, esse sono tassate esclusivamente in caso di registrazione volontaria della liberalità indiretta, oppure di accertamento da parte dell’Agenzia delle entrate e comunque con l’esclusione, in ogni caso, di liberalità correlate con atti volti alla costituzione o al trasferimento di immobili o di aziende che siano già assoggettati a registro in misura proporzionale o a IVA.
Nel caso di accertamento dell’Agenzia delle entrate, la liberalità è tassata se emerge, nell’ambito di un procedimento accertativo, l’esistenza congiunta delle seguenti condizioni:
- la liberalità emerge da dichiarazioni rese dall’interessato (ad esempio per giustificare incrementi
patrimoniali non congrui con i redditi dichiarati);
- le liberalità così emerse superano l’eventuale franchigia.
Tornando alle donazioni dirette, l’imposta di donazione, oltre all’ipotesi di valore donato inferiore alla
franchigia, è inoltre esclusa in alcuni casi tra cui, ai nostri fini, merita di essere citato quello della donazione ai propri discendenti o al coniuge quando ricorrono le seguenti condizioni (articolo 3, comma 4-ter, d.lgs. n. 346 del 1990):
- la donazione ha per oggetto aziende, rami di aziende o quote di società di persone se il donatario
prosegue l’attività d’impresa per almeno 5 anni dal trasferimento ovvero
- la donazione ha per oggetto quote o azioni di società di capitali se, congiuntamente:
– mediante la donazione di tali quote o azioni il donatario acquisisce (o raggiunge) il controllo della società;
– il donatario detiene il controllo per un periodo non inferiore a 5 anni.
La previsione, di cui all’articolo 3, comma 4-ter, d.lgs. n. 346 del 1990, è identica a quella applicabile in caso di patto di famiglia ovvero in caso di successione.
Anche in tema di donazioni si pone il problema dell’applicabilità dell’istituto del coacervo. Chiariamolo con un esempio: se Tizio dona al figlio euro 800.000 (che, rientrando nella franchigia, saranno esenti da imposta di donazione) e, in un secondo momento, dona altri euro 700.000, questa seconda donazione sarà tassata per euro 500.000 (applicazione del coacervo tra le due donazioni) oppure sarà anch’essa esente in quanto, presa a sé stante, inferiore alla franchigia di 1.000.000 (non applicazione del coacervo)? La dottrina, basandosi sul testo della norma è prevalentemente orientata ad escludere l’applicabilità del coacervo anche in questa sede (oltre che in sede successoria). Tuttavia, occorre segnalare una (unica e censurabile) sentenza della Suprema Corte (Cass., 11 maggio 2017, n. 11677) che, addirittura, ritiene applicabile l’istituto del coacervo anche alle donazioni avvenute nel periodo 2001/2006 quando la norma era abrogata nonché qualche (sempre censurabile) sentenza di merito (CTR Trentino AA – II – 42/2019 e Lombardia – VII – 263/2020) che escludono il “coacervo” solamente per le donazioni indirette.
5.6. Il trust successorio: profili civilistici
Tra gli strumenti con cui l’imprenditore può cercare di governare la propria successione, con particolare riferimento a quella parte di patrimonio costituita da aziende e/o partecipazioni sociali, vi è il cosiddetto trust successorio.
Lo strumento è interessante per la flessibilità di cui gode anche se, va detto subito, presenta diversi profili di difficoltà applicativa.
Ricordiamo che le figure del trust sono:
- disponente (o settlor o grantor): è il promotore del trust; nel trust successorio finalizzato al passaggio generazionale di aziende (in genere attraverso il passaggio delle partecipazioni nelle società proprietarie delle aziende stesse), è colui che trasferisce le proprie aziende (o le proprie partecipazioni);
- amministratore (o gestore o trustee): è colui che si intesta le aziende (o le partecipazioni) con il dovere di gestirle secondo le regole del trust stabilite dal disponente;
- beneficiario (o beneficiary): è colui per il cui beneficio è costituito il trust;
- guardiano (o protector): è una figura eventuale; se istituita, è una figura di fiducia del disponente che ha la funzione di sorveglianza dell’operato dell’amministratore e, talvolta, di sua supplenza in caso di impossibilità di quest’ultimo di svolgere (temporaneamente) le proprie funzioni.
Ricordiamo anche che, nel medesimo trust, un singolo soggetto può assumere diversi ruoli.
Le modalità di utilizzo del trust ai fini che ci interessano in questa sede, proprio per la estrema flessibilità dello strumento, sono molteplici.
Ai soli fini esemplificativi possiamo ipotizzare che Tizio, che possiede la partecipazione di maggioranza (51%) nella società Alfa, abbia due figli: Caio e Sempronio. Mentre Caio è giudizioso e, inoltre, lavora in azienda, Sempronio, con i soldi di papà, conduce vita dissoluta e improduttiva. Tizio teme che, alla propria morte, Sempronio dissipi quanto ereditato e, anche l’eventuale quota sociale ricevuta in eredità, se non venduta da lui stesso, finisca aggredita dai suoi creditori con danni di riflesso anche sulla società stessa.
Per risolvere il problema potrebbe:
- costituire un trust,
- in cui nominare Caio amministratore (trustee),
- come tale, trasferire a lui la nuda proprietà delle partecipazioni in Alfa,
- determinare che fino alla propria morte lui stesso, in quanto usufruttuario: 1) abbia diritto ai dividendi; 2) abbia la gestione della partecipazione in assemblea;
- determinare che successivamente: 1) beneficiari degli utili aziendali siano i due fratelli nelle misure (non necessariamente paritetiche) da lui previste; 2) che la gestione dell’intera partecipazione in assemblea spetti al trustee.
Risultati ottenuti:
- Tizio vivente, egli provvederà comunque al sostentamento del figlio dissoluto e, detenendo la
maggioranza in assemblea, imporrà gli amministratori: ovvero se stesso e/o il figlio Caio, ecc…
- morto Tizio, Caio avrà il controllo della società mentre Sempronio non potrà nè dissipare il patrimonio rappresentato dalla partecipazione, né allearsi col socio di minoranza sottraendo il controllo a Caio. Sempronio tuttavia, subordinatamente al buon andamento dell’azienda avrà una rendita garantita dai dividendi.
Inoltre, le partecipazioni saranno al sicuro anche dagli eventuali creditori di Caio (per quanto figlio giudizioso, non si sa mai!) poiché esse rappresentano un patrimonio separato rispetto a quello di Caio stesso e quindi inattaccabile dagli stessi.
Tuttavia, sotto il profilo civilistico-applicativo, l’istituto del trust presenta qualche importante
problematicità.
Superato, per giurisprudenza consolidata, il dubbio che il trust sia illegittimo in quanto in violazione dell’articolo 458 c.c. che vieta i patti successori, permane il problema derivante dall’estraneità dell’istituto all’ordinamento italiano e all’applicabilità in Italia solamente in virtù della Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, recepita dalla l. 16 ottobre 1989, n. 364.
Questo comporta:
- la necessità di scegliere e indicare nell’atto istitutivo l’ordinamento straniero di riferimento (inglese, irlandese, delle Isole Cayman o di Jersey, ecc…);
- conseguentemente il rifiuto da parte di molti notai della sua redazione per motivi deontologici, in quanto non sono in grado, all’atto della sottoscrizione, di rendere edotte le parti sulla portata giuridica delle clausole inserite nell’atto istitutivo;
- e, ancora conseguentemente, che in caso di controversie (salva l’ipotesi di decisione sulla nullità del trust, che spetta al Giudice italiano come sancito recentemente dalle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione con l’ordinanza 7621 del 18 marzo2019), occorre adire il Giudice del Paese la cui legislazione è stata scelta come legislazione di riferimento.
Le ulteriori conseguenze riguardano:
- la traduzione in lingua locale dello statuto del Trust che, normalmente, sarà stato redatto in italiano (con i relativi costi);
- la scelta dei legali che, sempre normalmente, saranno dello stesso Paese in cui si svolge il giudizio (anche in questo caso con costi sicuramente importanti);
- il rischio che si debbano tenere due giudizi nel caso dapprima venga eccepita la nullità (giudizio in Italia) e, se decisa a favore dell’insussistenza della stessa, successivamente vengano effettuate ulteriori eccezioni (giudizio nel Paese prescelto per la legislazione applicabile).
Infine, per completezza espositiva, si segnala che, con la legge n. 112 del 2016, altrimenti definita sul “dopo di noi”, il legislatore nazionale per favorire il benessere, la piena inclusione sociale e l’autonomia delle persone con disabilità grave, ha previsto importanti strumenti pubblici e privati, accompagnati da significative agevolazioni fiscali, regolamentando le questioni di pianificazione successoria. Tra gli strumenti previsti, ha specificamente indicato i trust ed i contratti affidamento fiduciario. Questi ultimi rappresentano una elaborazione dottrinale che utilizza figure e caratteristiche sovrapponibili a quelle rinvenibili nel trust impiegando, in alternativa alla legge straniera regolatrice necessaria del trust, le strutture giuridiche presenti nel nostro ordinamento.
5.7. Il trust successorio: profili fiscali
I modelli impositivi applicabili, ai fini delle imposte indirette, in presenza di trust non differiscono da quelli già esaminati con riferimento alle ipotesi di donazioni e successioni. Infatti, sebbene l’articolo 6 del D.L. n. 262 del 2006 avesse previsto l’applicazione dell’imposta di registro sulla costituzione di
vincoli di destinazione su beni e diritti, la legge di conversione n. 286 del 2006 non ha confermato tale 62
ultima previsione e ha, invece, previsto l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni per gli
atti di costituzione di vincoli di destinazione.
Il tema merita, tuttavia, una seppur succinta trattazione, tenuto conto del fatto che ad oggi sussiste un importante contrasto interpretativo fra prassi amministrativa e giurisprudenza di legittimità, in ordine al momento temporale in cui deve essere assolta l’imposta sulle successioni e donazioni in ipotesi di trust.
Nell’applicazione delle imposte indirette ai trust, i momenti potenzialmente rilevanti nella vita di un trust sono:
- la stipula dell’atto istitutivo (con o senza dotazione patrimoniale);
- l’atto di dotazione patrimoniale del trust da parte del disponente;
- il trasferimento dei beni in trust ai beneficiari finali dello stesso, da parte del trustee.
Quando l’atto costitutivo non contiene anche la dotazione patrimoniale del trust, non realizza alcun trasferimento di tipo patrimoniale, né costituisce vincoli di destinazione. Pertanto, tale atto va assoggetto ad imposta di registro in misura fissa (ex articolo 11 della Tariffa parte I allegata al d.P.R. n. 131 del 1986) e non ad imposta di successione e donazione (circolare n. 48/E del 2007).
Viceversa, integra un atto da cui deriva l’effetto della “costituzione di vincoli di destinazione”, assoggettati ad imposta sulle successioni e donazioni, la c.d. dotazione patrimoniale del trust. In merito alle modalità di applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni agli atti in esame, si registrano diversi orientamenti interpretativi dei quali è opportuno dare, seppur sinteticamente, atto.
Secondo l’Amministrazione finanziaria, il conferimento di beni nel trust va assoggettato all’imposta di successione e donazione in misura proporzionale al momento della dotazione patrimoniale e, nell’individuazione dell’aliquota d’imposta, si deve fare riferimento al rapporto esistente fra disponente e beneficiario finale del trust. Tuttavia, secondo l’Amministrazione finanziaria, ai fini dell’applicazione sia delle aliquote ridotte sia delle franchigie, il beneficiario deve poter essere identificato, in relazione al grado di parentela con il disponente, al momento della costituzione del vincolo.
La giurisprudenza (dapprima quella di merito) da tempo ha smentito la legittimità dell’interpretazione offerta dall’Amministrazione finanziaria e ha individuato un diverso criterio di tassazione degli atti in esame. Secondo i Giudici di merito la dotazione patrimoniale del trust integra un atto sottoposto a condizione sospensiva (fattispecie disciplinata dall’articolo 58, comma 2, del d.lgs. n. 346 del 1990) e che, pertanto, dovrebbe scontare l’imposta di registro in misura fissa al momento della segregazione dei beni in trust e l’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale al momento dell’eventuale trasferimento del patrimonio del trust a dei beneficiari finali (in tal senso, fra le altre: Comm. trib. prov., Firenze 12 febbraio 2009, n. 30 e Comm. trib. prov., Milano 5 febbraio 2014, n. 1208; Comm. trib. prov.,
Bologna 30 ottobre 2009, n. 120; Contra: Comm. trib. reg., Toscana 22 settembre 2014, n. 1702).
La giurisprudenza di legittimità sul tema è stata inizialmente caratterizzata da pronunce fra loro divergenti. Da principio la Corte, con le ordinanze nn. 3735 e 3737 del 2015 (sostanzialmente analoghe), aveva ritenuto legittima l’applicazione dell’imposta di successione e donazione al momento della costituzione del vincolo, in base al presupposto che il contenuto patrimoniale dell’atto era rinvenibile nell’utilità economica derivante al disponente dalla segregazione patrimoniale e questo anche in presenza di fattispecie che non avevano prodotto alcun effetto traslativo (in senso analogo: Cass., 7 marzo 2016, n. 4482).
Successivamente, la medesima Cassazione è tornata sull’argomento con la sentenza 26 ottobre 2016, n. 21.614 e ha espressamente smentito la validità dei precedenti orientamenti interpretativi. In tale ultima occasione è stato affermato che non può ritenersi valida né l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate né i precedenti giurisprudenziali della medesima Corte. In base al dato letterale della normativa di riferimento, infatti, “l’unica imposta espressamente istituita è stata la reintrodotta imposta sulle successioni e sulle donazioni alla quale per ulteriore espressa disposizione debbono andare anche assoggettati i “vincoli di destinazione”, con la scontata conseguenza che il presupposto d’imposta rimane quello stabilito dall’articolo 1 del d.lgs. n. 346 cit. del reale trasferimento di beni o diritti e quindi del reale arricchimento dei beneficiari.”. Secondo la Corte, quindi, l’unica interpretazione possibile della disciplina di riferimento è che va applicata l’imposta di registro in misura fissa al momento della dotazione patrimoniale del trust e in misura proporzionale al momento della attribuzione dei beni ai beneficiari finali. Nel corso del 2018 e del 2019 sembra essersi definitivamente consolidato questo secondo orientamento interpretativo, infatti, la Suprema Corte, tornando sull’argomento, ha nuovamente rassegnato analoghe conclusioni (Cass., 5 dicembre 2018, n. 31.445; Cass., 15 gennaio 2019, n. 734 e Cass., 17 gennaio 2019, n. 1.131).
Infine, è appena il caso di sottolineare che, ove pure si volesse aderire all’orientamento manifestato dall’Amministrazione finanziaria e, quindi, nel caso in cui si ritenga corretto che la tassazione in misura proporzionale avvenga al momento della dotazione patrimoniale del trust, il trasferimento del patrimonio del trust al beneficiario finale del medesimo non sconta un’ulteriore imposta. I beni, infatti, hanno già scontato l’imposta sulla costituzione del vincolo di destinazione al momento della segregazione in trust e questa tassazione ha come presupposto il trasferimento di ricchezza ai beneficiari finali.
5.8. La reintegra dei diritti dei legittimari: profili civilistici
Ogni strumento di cui abbiamo parlato (patto di famiglia, successione, donazione e trust) ha, talora, dei tratti in comune con qualche altro, ma un aspetto riguarda tutti: il rispetto dei diritti dei legittimari.
Tali diritti si declinano come segue:
- il diritto dei legittimari ad ottenere la propria quota di legittima nell’eredità è inviolabile;
- il momento in cui valutare se tale diritto è stato rispettato o violato è quello dell’apertura della
successione (cioè alla morte del soggetto);
- in quella data si valuta il valore dell’asse ereditario e, in questo valore, si ricomprende quello delle donazioni effettuate in vita (togliendo le passività esistenti al momento dell’apertura della successione);
- sul valore dell’asse ereditario come sopra si calcola la quota dei legittimari.
A tutela di quanto sopra la legge prevede due, fondamentali, fattispecie: l’istituto della collazione
(articolo 737, comma 1, c.c.) e l’azione di riduzione (articoli 553 e segg. c.c.).
5.8.1. La collazione
Ai sensi dell’articolo 737, comma 1, c.c. in occasione della morte del donante, i suoi discendenti e il coniuge, accettando l’eredità, devono conferire all’asse ereditario le donazioni che hanno avuto dal defunto mentre era in vita.
Esempio: Tizio muore, senza alcun testamento, lasciando come eredi esclusivamente i 2 figli Caio e Sempronio. Il patrimonio di Tizio, al momento della morte, è di 1.000 (supponiamo tutta liquidità). Caio, tuttavia, ha avuto dal padre mentre era in vita, la donazione di un immobile che, al momento della donazione stessa, valeva 200 mentre al momento della morte di Tizio vale 400. L’asse ereditario è dato dal cumulo tra la liquidità giacente e l’immobile donato illo tempore (supponiamo che non vi siano passività) e, vista l’assenza di testamento, si divide per due. Non solo: il valore su cui fare il calcolo è 1.400 – e non 1.200 – poiché il valore della donazione si valuta al momento della morte del donante. Quindi, in sede successoria, Sempronio avrà liquidità pari a 700 mentre a Caio toccherà 300, che, cumulata ai 400 del valore della donazione, lo porta a pareggiare il fratello. Naturalmente Tizio potrebbe non accettare l’eredità, nel qual caso egli si terrebbe l’appartamento ma la liquidità di 1.000 andrebbe interamente a Sempronio).
Il donante, tuttavia, in sede di donazione, può dispensare il donatario dalla collazione ma la disposizione è valida solo nei limiti della quota disponibile.
Nell’esempio precedente, se Tizio, in sede di donazione, avesse dispensato Caio dalla collazione, poiché la quota disponibile è 1/3 e 1/3 di 1.400 è 466,66, cioè più di 400, la divisione tra gli eredi avrebbe riguardato i soli 1.000 di patrimonio di Tizio al momento della morte, da dividersi in parti uguali di 500 cadauno tra i 2 fratelli. Così, infine, Caio avrà avuto 400 + 500 = 900 e Sempronio solo 500.
Se però il patrimonio di Tizio al momento della morte, anziché di 1.000 fosse di 500, avremmo che il valore dell’asse ereditario sarebbe di 900 e la quota disponibile di 300. Quindi la liquidità sarebbe divisa, quanto a 300 a Sempronio come sua quota di legittima, quanto a 200 a Caio che, sommato ai 400 della donazione avrebbe in totale 600 ovvero: 300, come sua quota di legittima e 300, come disponibile che il de cuius gli ha attribuito.
In sostanza, per coniuge e discendenti, la donazione è una sorta di “acconto” sulla futura successione, salvo che il donante disponga diversamente ma, in questo caso, comunque nel limite della quota disponibile.
5.8.2. L’azione di riduzione
L’azione di riduzione è disciplinata agli articoli 553 e seguenti c.c. ed è l’azione che consente ai legittimari di ottenere la reintegrazione della legittima mediante la riduzione delle disposizioni testamentarie e/o delle donazioni effettuate in vita, per la parte che ecceda la quota disponibile. Il calcolo della legittima si effettua mediante un’operazione matematico-contabile denominata “riunione fittizia” (calcolo puramente contabile diverso rispetto al conferimento dei beni previsto dalla collazione) con la quale si sommano, alle attività lasciate dal defunto, le donazioni effettuate in vita e si tolgono le passività.
Esempio: Tizio muore lasciando un patrimonio di 1.000 e debiti per 300 dopo che, in vita aveva effettuato donazioni per 500 (da intendersi come valore alla data della morte dei beni donati “illo tempore”) a favore di un ente benefico. Con la riunione fittizia si determina che l’asse ereditario è di (1.000 – 300 + 500 =) 1.200. Se gli eredi sono la moglie e due figli, per ciascuno di essi la quota di legittima è di 300. Di conseguenza la quota disponibile è di 300. Poiché l’ente benefico ha avuto 500, gli eredi legittimari potranno esperire giudizialmente l’azione di riduzione per ottenere dall’ente benefico la restituzione di 200 avuti in eccedenza rispetto alla quota disponibile.
Esempio ulteriore: Tizio muore lasciando un patrimonio netto di 600 costituito da beni per 1.000 e debiti per 400, nonché i due figli Caio e Sempronio come eredi legittimari. Tizio lascia anche un testamento con cui destina a Caio un valore di 500 e a Sempronio un valore di 100. L’asse ereditario è, evidentemente di 600 e la quota di legittima di ciascun figlio 200, così come 200 è la disponibile. Di conseguenza Sempronio potrà agire in riduzione della disposizione testamentaria a favore di Caio da 500 a soli 400 (200 di legittima e 200 di disponibile) salvaguardando così la propria legittima di 200.
5.9. La reintegra dei diritti dei legittimari: profili fiscali
Per l’individuazione della disciplina fiscale, ai fini delle imposte indirette, applicabile ai trasferimenti di beni realizzati in funzione di accordi raggiunti per la reintegra dei diritti dei legittimari si deve fare riferimento a quanto previsto all’articolo 43 d.lgs. n. 346 del 1990. Detti accordi, infatti, intervengono dopo l’apertura della successione del de cuius e l’applicazione del richiamato articolo 43 d.lgs. n. 346 del 1990 risulta funzionale a evitare una duplicazione d’imposta, rispetto a quella già assolta in sede di successione o donazione.
Il cennato articolo 43 espressamente prevede che: “Nelle successioni testamentarie l’imposta si applica in base alle disposizioni contenute nel testamento, anche se impugnate giudizialmente, nonché agli eventuali accordi diretti a reintegrare i diritti dei legittimari, risultanti da atto pubblico o da scrittura privata autenticata, salvo il disposto, in caso di accoglimento dell’impugnazione o di accordi sopravvenuti, dell’articolo 28, comma 6, o dell’articolo 42, comma 1, lettera e)”.
In sostanza, l’imposta viene applicata in base alle disposizioni testamentarie e a quelle contenute negli eventuali accordi di reintegra della legittima. Tuttavia, qualora sopravvenga un mutamento della devoluzione ereditaria, viene integralmente rimborsata l’eventuale maggiore imposta che risulti versata in eccedenza (articolo 42, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 346 del 1990).
Inoltre, è utile ricordare che i soggetti obbligati al versamento dell’imposta devono presentare 66
dichiarazione sostitutiva o integrativa in tutti i casi di sopravvenienza di eventi che comportino mutamento della devoluzione ereditaria o applicazione dell’imposta in misura superiore (articolo 28, comma 6, d.lgs. n. 346 del 1990).
Ai fini dell’imposta di registro, infine, si segnala che nel caso in cui l’accordo tra i coeredi sia finalizzato esclusivamente al riconoscimento della quota ereditaria che spetta al legittimario, l’atto pubblico che recepisce l’accordo medesimo ha natura meramente ricognitiva e, pertanto, è da ritenere assoggettabile ad imposta di registro in misura fissa, a norma dell’articolo 11 della Tariffa, parte I, d.P.R. n. 131 del 1986. Se, invece, dall’accordo deriva non la semplice reintegrazione della quota legittima lesa, bensì ulteriori e diversi effetti traslativi, si deve valutare l’eventuale contenuto patrimoniale delle disposizioni dell’atto per stabilire la rilevanza o meno delle disposizioni stesse ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale.
5.10. La volontà dell’imprenditore di gestire il proprio passaggio generazionale
Tratteggiati gli altri istituti, oltre al patto di famiglia, con i quali l’imprenditore può gestire la propria successione, possiamo valutare la sensibilità dell’imprenditore nel voler gestire il passaggio generazionale nei casi in cui decida di avvalersi:
- della successione legittima;
- della successione testamentaria;
- della donazione;
- del trust;
- del patto di famiglia.
5.10.1. Segue: la successione legittima
Rappresenta la situazione in cui l’imprenditore ha deciso di non fare nulla, in vita, per destinare post mortem il proprio patrimonio e, specificatamente, ha deciso di non gestire il passaggio generazionale in azienda (si noti che anche il non far nulla, rappresenta comunque una decisione!).
Purtroppo, è una situazione molto frequente le cui motivazioni derivano da un atteggiamento
dell’imprenditore che:
- cerca di sfuggire al pensiero della propria morte perché questo gli mette paura e angoscia;
- sfugge al pensiero della morte pensando così di sfuggire alla morte stessa;
- si sente invulnerabile e quasi immortale e quindi non avverte la necessità di affrontare una situazione che vede come remota e aliena da sé;
- per nonprendere decisioni che scontentano questo o quell’erede, non ne prende alcuna, lasciando così che i propri eredi, a decesso avvenuto, se la sbrighino da soli (con conseguenti, frequenti, contrasti che il più delle volte andranno a minare anche le relazioni affettive tra di loro).
Salvo il caso, non molto frequente, in cui la successione legittima, di fatto, indirizzi il patrimonio come sarebbe auspicabile (ad esempio se un imprenditore ha un unico figlio che lavora in azienda), la scelta di non scegliere, quasi sicuramente creerà problemi tra gli eredi e questi problemi metteranno a rischio la sopravvivenza o, quantomeno, lo sviluppo dell’azienda di famiglia.
5.10.2. Segue: la successione testamentaria
In questo caso l’imprenditore, quantomeno, ha deciso di affrontare il problema.
Tuttavia, anche se la soluzione utilizzata con efficacia al momento della sua morte canalizzerà l’attività verso gli eredi prescelti, essa è debole sotto il profilo motivazionale di quegli stessi eredi che sono stati deputati a continuare l’attività imprenditoriale.
Infatti se l’imprenditore non esplicita ai “prescelti” le proprie volontà testamentarie, poiché i “prescelti” stessi non ne hanno notizia, saranno meno motivati a dare il massimo in azienda nel timore che i propri sforzi vadano a beneficio anche degli altri eredi; ma anche se il testamento è noto, comunque, gli eredi deputati alla continuità aziendale avranno sempre il timore che esso possa essere in futuro modificato per qualsiasi motivo e quindi, anche in questa situazione, saranno meno motivati a dare il massimo.
5.10.3. Segue: la donazione
La donazione dell’azienda o delle proprie partecipazioni (in tutto o in parte) è sicuramente un atto più forte di una semplice destinazione testamentaria.
Tipicamente, in realtà, la donazione riguarderà la nuda proprietà, di azienda o partecipazioni, poiché il donante vorrà tenere per sé, in vita, l’usufrutto (e quindi gestione e frutti) dell’attività imprenditoriale.
Tuttavia, anche in questo caso, la situazione in cui si troverà il donatario non sarà pienamente motivante.
Infatti, benché la donazione sia un contratto bilaterale e, come tale, non revocabile ad nutum, sappiamo che essa può essere oggetto di revoca in due casi:
- per ingratitudine del donatario (e la convivenza tra imprenditore ed eredi “prescelti” potrebbe, in casi non rari, sfociare in conflitti dai toni aspri, al punto da arrivare, ad esempio, all’ingiuria, e che quindi diano modo al donante di esperire l’azione di revoca);
- per la sopravvenienza di altri eredi (cosa, anch’essa, non rara qualora l’imprenditore,
successivamente alla donazione, decida di formarsi una nuova famiglia).
Inoltre, come visto sopra, il donante può dispensare il donatario dalla collazione ma non può
esonerarlo dall’azione di riduzione quando, sulla scorta della composizione della massa ereditaria al momento della successione, risulti lesa la legittima degli altri eredi.
Oltretutto, il valore dei beni donati si computa al momento della successione per cui, paradossalmente, potrebbe accadere in ipotesi che il donatario che, col proprio lavoro, ha fortemente contribuito ad accrescere il valore dell’azienda, si sia, in qualche modo, autodanneggiato perché proprio il maggior valore dà modo agli altri eredi di esperire l’azione di riduzione.
Un esempio chiarirà meglio. Nell’anno X l’imprenditore Tizio, vedovo, dona al proprio figlio Caio (che opera già in azienda) la nuda proprietà dell’intera propria partecipazione, pari al 100%, in Alfa Spa, il cui valore, in quel momento, è di 1.000 e, contemporaneamente, dona al figlio Sempronio (che ha fatto scelte di lavoro diverse) la nuda proprietà del restante proprio patrimonio (ad esempio, immobili) che, parimenti vale 1.000. Nell’anno X + y Tizio muore ma, proprio grazie al buonissimo sviluppo dell’azienda (magari col contributo determinante di Caio), quest’ultima, in quel momento, vale 8.000 mentre gli immobili valgono ancora 1.000 (di conseguenza la massa vale 9.000, la legittima 3.000 e la disponibile pure 3.000). A questo punto Sempronio potrà, entro 10 anni dall’apertura della successione, agire con l’azione di riduzione per ottenere da Caio 2.000 così da raggiungere la propria quota di legittima. E se Caio non avrà la disponibilità liquida di 2.000, Sempronio potrà agire per la restituzione di tante azioni che ne rappresentino il controvalore con l’aggravante, quindi, per Caio, di trovarsi il fratello come socio (sia pure di minoranza). Se l’imprenditore, anziché utilizzare l’istituto della donazione, avesse stipulato un patto di famiglia, i valori dei beni si sarebbero consolidati al momento dell’atto e le eventuali variazioni di valore nel tempo non avrebbero avuto effetti.
5.10.4. Segue: il trust
Il trust, apparentemente, è uno strumento perfetto per gestire il passaggio generazionale in azienda.
Della sua flessibilità abbiamo già detto, così come della sua adattabilità a dare soluzione a quasi tutte le tipologie di problemi.
Purtroppo, anche se taluni problemi sono stati risolti, la sua natura di istituto proveniente da ordinamenti di common law (anche se riconosciuto in Italia come spiegato sopra) e per tale motivo non recepito direttamente nel nostro sistema legislativo, pone una serie di problemi tra cui, non ultimo, l’atteggiamento psicologico dell’imprenditore che ne avverte l’estraneità ai principi generali del nostro diritto.
Inoltre, con buona pace dei (molti e sempre in aumento) fautori di un suo utilizzo diffuso, che sottolineano come i suoi costi di istituzione e gestione possano essere confrontabili a quelli degli istituti concorrenti, in caso di contenzioso i costi dello stesso e la sua gestione, sarebbero sicuramente assai impegnativi, così da sconsigliarne, a parere di chi scrive, l’utilizzo per patrimoni di non elevata consistenza.
5.11. Conclusioni
5.11.1. Il ruolo dell’imprenditore
Possiamo ritenere che il proprietario di un’azienda (direttamente o tramite partecipazioni societarie nella società che la possiede) sia da una parte titolare di legittimi diritti individuali, dall’altra anche portatore di doveri sociali nei confronti di tutti i cosiddetti stakeholders: dipendenti in primis, ma anche fornitori e clienti, ambito territoriale di riferimento, ecc.
Se quindi, da una parte, egli ha il diritto soggettivo di disporre di tutti i propri beni (ovviamente nel rispetto delle legittime), compresi quelli costituenti l’attività imprenditoriale, dall’altra egli ha il dovere morale di agire tenendo conto anche dell’interesse sociale. Questo perché l’eventuale successo imprenditoriale, oltre che alle capacità dell’imprenditore, è sicuramente dovuto a tutti coloro che, in qualche misura vi hanno contribuito ovvero, come detto: maestranze, partners commerciali, ambito territoriale di riferimento, ecc.
Sotto questo profilo, la gestione del passaggio generazionale, con l’intento di lasciare l’azienda nelle migliori condizioni e nelle migliori mani (peraltro, non necessariamente individuabili in qualche erede diretto) per garantirle un futuro il più sereno possibile, costituisce un dovere morale per l’imprenditore e dovrebbe costituire un suo preciso impegno.
5.11.2. Il ruolo del Commercialista
Il Commercialista, specialmente nelle micro, piccole e medie imprese, svolge spesso una funzione di affiancamento a tutto tondo dell’imprenditore, tale da esondare dalle attività meramente contabili, fiscali o societarie, per diventare un consigliere a 360 gradi; talvolta, addirittura un “confessore” o, comunque, il depositario di segreti personali.
Il Dottore Commercialista, quindi ha, in primis, il dovere di conoscere bene tutti gli strumenti giuridici che l’ordinamento gli mette a disposizione per gestire al meglio il passaggio generazionale nell’interesse dell’imprenditore, ma anche della collettività.
Ma, ancor di più, in virtù del proprio rapporto privilegiato con l’imprenditore medesimo, non può non svolgere un ruolo di stimolo ad affrontare le problematiche connesse, anche relazionali, nonché di indirizzo sulle scelte da effettuare.
In questa attività egli, consapevole delle specializzazioni di ognuno, dovrà collaborare con le altre figure professionali (notaio, avvocato, eventualmente coach), ma senza abdicare al proprio ruolo di regista del tutto.
5.11.3. Il ruolo del legislatore
Infine, il Legislatore, che giustamente persegue la crescita economica della Nazione, dovrebbe rendersi conto che una sistemazione organica del corpus giuridico, che dia soluzione a tutti i problemi aperti, sia in ambito civile che fiscale, in funzione di agevolare la sopravvivenza delle attività produttive al proprio fondatore, chiarendo e potenziando l’Istituto del Patto di Famiglia, porterebbe risultati
sicuramente consistenti.
Infatti, se è vero che:
- le imprese che occupano da 0 a 9 dipendenti sono il 95,2% del totale;
- quelle che ne occupano da 10 a 249 sono il 4,7%;
- che, di conseguenza, le imprese sino a 249 dipendenti, in totale, rappresentano il 99,9% delle imprese (nonché 68,2% del PIL) (come da dati ISTAT – Annuario statistico italiano 2019);
- quasi il 30% degli imprenditori/manager ha dai 60 anni in su (dati INAPP 2014);
risulta fondamentale agevolare il passaggio generazionale così da garantire all’azienda, anche dopo la morte dell’imprenditore, un assetto societario e una governance stabili. Una premessa necessaria (anche se non sufficiente) per evitare la distruzione di ricchezza sociale, oltre che individuale, che deriva dal dissolvimento del bene “azienda” con la conseguente dispersione di know-how, professionalità acquisite nel tempo, asset materiali e immateriali, ecc…
Evitare questo depauperamento economico (ineliminabile totalmente, ma sicuramente consistentemente riducibile) è certamente il primo passo per contribuire in modo positivo alla crescita dell’economia nazionale.
In quest’ambito, preminente appare la soluzione dei problemi che andiamo a evidenziare nella successiva Sezione, così da attribuire definitivamente al patto di famiglia la sua funzione di strumento principe per realizzare correttamente il passaggio generazionale dell’impresa.
Da ultimo, si segnala che le modifiche (e/o integrazioni) normative di seguito proposte potrebbero essere adottate senza comportare alcun aggravio per le casse dello Stato e, al contrario, in quanto foriere di influssi positivi sul PIL (grazie ad un maggior ricorso all’utilizzo dell’istituto del patto di famiglia), potrebbero apportare maggiori risorse all’Erario.
SEZIONE VI – DE JURE CONDENDO (di Luigi Gualerzi)
6.1. Aspetti che richiedono urgenti interventi normativi
Nell’ambito del suo auspicabile intervento chiarificatore, il principio informatore del Legislatore dovrebbe partire dalla considerazione che l’azienda vada salvaguardata come entità portatrice di ricchezza, non solo per i suoi proprietari, ma anche per tutti i portatori di interesse che la circondano.
Di conseguenza, pur nel rispetto dei principi relativi alla proprietà e, a valle, dei diritti dei legittimari che sull’acquisizione di quella proprietà fondano, in tutto o in parte, le loro aspettative future, le norme dovrebbero essere tese a salvaguardare il più possibile il “bene azienda” in sé, nell’interesse anche di tutti gli altri stakeholders.
Con quest’angolo visuale e questi obiettivi, gli aspetti principali che il Legislatore dovrebbe risolvere o su cui dovrebbe intervenire (in linea generale già affrontati negli specifici, precedenti, paragrafi di questo documento) possono essere sintetizzati come segue.
6.1.1. Necessità della partecipazione di tutti i legittimari all’atto
La maggior parte della dottrina e la pressoché totalità dei Notai ritiene che alla stipula del patto di famiglia debbano necessariamente partecipare tutti i legittimari (vedi paragrafo 2.5.3) e ciò in quanto il comma 1, dell’articolo 768-quater c.c. espressamente postula che: “Al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore”.
A tale previsione, apparentemente lapidaria, si oppone chi fa leva su quanto prevede l’articolo 768- sexies c.c. che recita: “All’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere”.
I (pochi) sostenitori della seconda tesi, ritengono che questo passaggio lasci aperta la porta alla possibilità della stipula pur in assenza di qualcuno tra i legittimari, in quanto ne contempla proprio l’ipotesi.
Controbatte la maggioranza della dottrina, che l’articolo 768-sexies c.c. sarebbe motivato esclusivamente dalla necessità di salvaguardare i soggetti che hanno assunto lo status di coniuge o di altro legittimario, successivamente alla stipula del patto, in seguito a nuovo matrimonio e/o alla nascita di nuovi figli. E che, quindi, la norma sia riferita a dei legittimari sopravvenuti.
La ricostruzione della dottrina maggioritaria è difficilmente confutabile. Tuttavia, tale interpretazione, nei fatti, rende spesso inutilizzabile lo strumento (con tutte le conseguenze negative sul passaggio generazionale che abbiamo evidenziato nei capitoli precedenti) a causa dell’opposizione anche di uno solo dei membri della famiglia (che, nella maggior parte dei casi, risulta essere quello estraneo alla conduzione dell’azienda e meno interessato al suo positivo sviluppo) che potrebbe così “tenere in ostaggio” tutti gli altri, di fatto impedendo un’anticipata pianificazione del passaggio generazionale.
Una soluzione di tipo legislativo che, pur nella salvaguardia degli interessi economici dei legittimari che non partecipino al patto, ne consenta comunque la stipula, così da indirizzare il futuro dell’azienda verso quei legittimari che, invece, sembrino dare le migliori garanzie per le prospettive future di questa, andrebbe maggiormente nell’interesse della collettività, nonché potenzierebbe le finalità perseguite dall’istituto.
6.1.2. Possibilità di liquidare le quote di legittima spettanti ai legittimari non assegnatari direttamente da parte del disponente
Il comma 2, del citato articolo 768-quater c.c. testualmente recita: “Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti”. La lettera della Legge, quindi, sembra porre a carico esclusivamente degli assegnatari l’onere di tacitare i diritti dei legittimari non assegnatari.
Nella realtà, tuttavia, quasi mai gli assegnatari dispongono di risorse finanziarie sufficienti, mentre queste, più di frequente, sono nella disponibilità del disponente.
Sul punto, rinviamo a quanto esposto, sia nella Sezione relativa all’inquadramento civilistico
dell’istituto (paragrafo 2.5.4), sia nel paragrafo relativo all’imposizione indiretta ove vengono chiarite
le strade che in sede applicativa si sono individuate per consentire che i legittimari non assegnatari
siano comunque, di fatto, soddisfatti con beni o finanza provenienti dal disponente.
Tuttavia, come chiaramente esposto nel paragrafo citato, queste soluzioni prestano il fianco a possibili soluzioni interpretative da parte dell’Agenzia delle Entrate che, nei fatti, determinerebbero una doppia tassazione.
Ipotizziamo che Tizio, senza coniuge, abbia due figli: Caio, impegnato nell’azienda paterna e Sempronio, che ha scelto altre strade. Caio non ha beni propri. Il patrimonio di Tizio è di euro 10.000.000,00, per metà rappresentato dal valore dell’azienda e per metà da immobili. Tutti sono concordi nella volontà che l’azienda vada a Caio e gli immobili a Sempronio. Anche prescindendo dalle imposte ipotecarie e catastali sugli immobili e al netto della possibilità di ricondurre il trasferimento d’azienda nell’ambito del regime di esenzione al ricorrerne dei presupposti applicativi secondo l’interpretazione dell’Agenzia delle entrate, avremmo l’applicazione dell’imposta sulle donazioni al 4% su 9.000.000,00 (applicando la franchigia di 1.000.000,00) nel passaggio da Tizio a Caio di tutto il patrimonio. Un minuto dopo avremmo l’applicazione dell’aliquota del 6% su 4.900.000,00 (applicando la franchigia di 100.000,00) nel passaggio degli immobili da Caio a Sempronio. Il costo fiscale dell’operazione (sempre non computando le ipo-catastali), che nella pratica viene quasi sempre accollato dal disponente, sarebbe quindi di euro 654.000,00. In sostanza, il trasferimento dell’intero patrimonio ai propri figli comporterebbe un “costo fiscale” superiore al 6,5%. Prescindendo da qualsivoglia considerazione di tipo equitativo, non si può non rilevare come il cennato “costo” fiscale sia nettamente superiore a quello voluto dal legislatore nel fissare al 4% (al netto delle franchigie) l’aliquota dell’imposta di successione in ipotesi di passaggi verso i discendenti.
Ora, un intervento legislativo che chiarisca che il rispetto dei diritti dei legittimari non assegnatari possa essere ottenuto con attribuzioni dirette da parte del disponente, sgombrerebbe il campo dalla necessità di percorrere queste impervie strade civilistiche, che potrebbero comportare anche un aggravio di tassazione.
L’adozione di un provvedimento normativo di questo tipo potrebbe, altresì, offrire l’occasione al legislatore per valutare l’opportunità di ricondurre nell’ambito dell’agevolazione fiscale prevista per il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni anche i trasferimenti effettuati dal dante causa nei confronti dei legittimari non assegnatari, in quanto trasferimenti strettamente connessi e realizzati nell’ambito dell’unico patto di famiglia.
Con la situazione sopra esemplificata, al netto dell’operatività del regime di esenzione, entrambi i figli godrebbero della franchigia di 1.000.000,00 e dell’aliquota del 4%. Inoltre, gli immobili andrebbero direttamente da Tizio a Sempronio. Per cui, sempre non computando le ipo-catastali, avremmo una tassazione del 4% su 8.000.000,00 ovvero di euro 320.000,00 (anziché 654.000,00) in linea con quanto accadrebbe non utilizzando un patto di famiglia ma con due “banali” donazioni (subendo, tuttavia, in tal caso tutte le limitazioni che si sono esaminate nella sezione precedente).
L’adozione di una soluzione normativa di questo tipo contribuirebbe, altresì, a risolvere un’ulteriore criticità che potrebbe verificarsi nel caso in cui il patto di famiglia venga sciolto.
L’articolo 768-septies c.c. prevede la possibilità che il patto venga sciolto: o per la formulazione di un diverso patto di famiglia o per il recesso di una delle parti (tipicamente il disponente), se tale possibilità è stata espressamente prevista nel contratto. Rinviando alla Parte II per un’analisi più approfondita della fattispecie, nel caso in cui sia il disponente a recedere (ovviamente essendosene riservata la facoltà in atto) si viene a ricreare la situazione di partenza e i beni tornano dagli assegnatari al disponente stesso. Ma cosa ne sarebbe dei beni attribuiti dal disponente ai legittimari non assegnatari? Se essi fossero comunque parte dell’unico “patto di famiglia” la soluzione sarebbe semplice: anch’essi tornerebbero al disponente ricreando così la situazione di partenza.
Anche su questo punto, una modifica normativa finalizzata a dipanare ogni dubbio e legittimare scelte operative di questo tipo sarebbe sicuramente opportuna oltre che funzionale ad una maggiore fruibilità dell’istituto.
6.1.3. Individuazione delle partecipazioni che possono essere oggetto del patto di famiglia
Vi sono diverse criticità che interessano questo tema.
In primo luogo, si evidenzia che, nel dare la nozione di patto di famiglia, l’articolo 768-bis c.c. prevede che: “È patto di famiglia il contratto con cui (omissis) l’imprenditore trasferisce (omissis) e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti”. Come dettagliatamente illustrato nel precedente paragrafo 2.4 relativo all’inquadramento civilistico dell’Istituto, sulla scorta del tenore letterale della norma (che parla di “quote”), parte della dottrina ha postulato l’esclusione delle partecipazioni rappresentate da azioni. In proposito ha tuttavia prevalso un’interpretazione estensiva, e non letterale, della normativa di riferimento, che comprende non solo le quote societarie, ma anche le azioni nel perimetro delle partecipazioni possibili oggetto di patto di famiglia. L’esplicito recepimento, a livello normativo, di siffatta impostazione determinerebbe maggiore certezza nella prassi operativa, con conseguente incremento della “appetibilità” dell’istituto.
Inoltre, che la finalità dell’istituto sia quella di agevolare il passaggio generazionale del “bene azienda” è chiaro e l’abbiamo più volte sottolineato anche in questo documento. Partendo da questo assunto, taluno, specialmente agli inizi dell’applicazione dell’Istituto ha ipotizzato che non potessero essere oggetto del patto le partecipazioni in aziende “senza impresa” come, ad esempio, le partecipazioni in società di mero godimento immobiliare.
Sempre come conseguenza della finalità dell’Istituto di agevolare il passaggio generazionale del “bene azienda”, si discute se possano essere oggetto del patto le partecipazioni in società di capitali non atte a trasferire (o idonee a integrare) una posizione di controllo societario. In sostanza, al di là delle eventuali disposizioni agevolative fiscali, ci si chiede se il trasferimento oggetto del patto possa riguardare anche partecipazioni non qualificate poiché, in questo caso, si sarebbe di fronte a una operazione meramente finanziaria, estranea alle tutelabili esigenze di passaggio generazionale (Si ipotizzi, ad esempio, un patto che abbia come oggetto una partecipazione di scarsa entità, magari in
una società in cui già esiste una solida maggioranza, totalmente estranea alla famiglia del disponente).
Contro tale restrittiva interpretazione, peraltro, depone il tenore letterale della norma codicistica (vedi articolo 768-bis c.c.) che, a differenza di quanto previsto per l’applicabilità dell’agevolazione fiscale, non pone limiti all’entità delle partecipazioni del disponente (che però, secondo taluno, dovrebbe essere “comunque” qualificabile come “imprenditore”).
Un intervento normativo che stabilisca le eventuali caratteristiche che debba possedere la partecipazione in contratto ovvero chiarisca che qualsiasi partecipazione possa esserne oggetto è, in questo caso, indispensabile.
6.1.4. Le principali incertezze operative in tema di imposte dirette
Come visto analiticamente nella specifica sezione, i dubbi in materia di imposizione diretta riguardano fondamentalmente due aspetti:
- il primo è relativo all’ipotesi in cui l’assegnatario sia imprenditore poiché, in questo caso, l’Agenzia delle Entrate in passato (interpello promosso dalla DRE della Basilicata) ha assunto una posizione volta a ricondurre l’ipotesi nell’alveo dell’art.88, comma 3, Tuir e quindi a qualificare quanto ricevuto dall’assegnatario come sopravvenienza attiva immediatamente tassabile all’interno del reddito d’impresa. Come argomentato al paragrafo 4.2.1, la posizione è ampiamente criticabile;
- il secondo riguarda la rilevanza fiscale (o meno) della liquidazione ricevuta dai legittimari non assegnatari. In realtà sul punto non dovrebbero esservi dubbi per le chiare motivazioni esposte al paragrafo 4.2.2.
Su entrambe le tematiche, tuttavia, un intervento normativo, fondato su un’interpretazione della
norma favorevole ai contribuenti, varrebbe sicuramente a spingere verso l’utilizzo dell’Istituto.
6.1.5. Possibile modifica normativa di carattere innovativo volta a potenziare l’istituto.
Vi è, infine, un ulteriore aspetto che meriterebbe una riflessione da parte del Legislatore fiscale.
Si tratta del caso in cui, consensualmente, tutti i partecipanti decidano di sciogliere il patto. In questa ipotesi sarebbe auspicabile che venisse esplicitato a livello normativo che tale ripristino della situazione ex ante avvenga senza (ulteriori) oneri fiscali, ovvero a prescindere dal fatto che lo scioglimento del patto di famiglia non intervenga in funzione di una clausola risolutiva espressa, bensì per mutuo consenso delle parti (vedi paragrafo 4.3.3); ferma restando, ovviamente, la non rimborsabilità delle imposte indirette assolte sul primo passaggio. L’orientamento attuale dell’Agenzia delle entrate, infatti, comporta, nelle ipotesi di scioglimento del patto per mutuo consenso delle parti (come si è ampiamente esposto nella precedente sezione), che se i beni, col patto stesso sono passati dal padre al (o ai) figlio, poi tornano al padre in seguito allo scioglimento e infine ripassano al (o ai) figlio in sede successoria, il passaggio generazionale finirebbe per subire di fatto una tripla tassazione.
Di conseguenza, come già espresso sul tema al paragrafo 4.3.4, non può che auspicarsi un intervento normativo, atto ad impedire il verificarsi di ipotesi di doppia tassazione del medesimo atto e comunque in linea con la richiamata disposizione di cui al comma 4-bis dell’articolo 1, d.lgs. n. 346 del 1990 in quanto, nel caso di specie, il “negozio fine” sconta comunque una tassazione proporzionale (peraltro anche maggiore di quella che avrebbe trovato applicazione se detto negozio fosse rientrato nell’ambio di applicazione dell’imposta di registro anziché di quella di successione e donazione).
6.2. Conclusioni
Come si evince, a soli 14 anni dalla sua introduzione, gli interventi auspicabili sul tessuto normativo dell’Istituto sono molteplici; qualcuno in un’ottica schiettamente migliorativa, altri più funzionali a superare le difficoltà operative emerse in questi primi anni di applicazione dell’istituto. Del resto, se uno strumento così importante per l’economia nazionale, come abbiamo ampiamente evidenziato, è stato sino ad oggi poco utilizzato, dipende in buona misura dai vincoli normativamente posti al medesimo, nonché da alcune incertezze interpretative o vuoti normativi.
Un importa
te restyling è quindi fortemente auspicabile.